Timnit Gebru è la stimata ingegnera informatica passata alla cronaca per essere stata licenziata da Google dopo averne criticato l’approccio nei confronti delle minoranze ed evidenziato i potenziali rischi dei suoi sistemi di intelligenza artificiale.
Nel 2021 la rivista Fortune l’ha nominata tra le 50 personalità più influenti al mondo, Nature l’ha segnalata tra le dieci persone che hanno plasmato la scienza. L’anno successivo è stata invece tra le persone più influenti per Time.
Sostenitrice della diversità nella tecnologia, nel 2017 ha contribuito a fondare Black in AI, network di professionisti con l’intento di incrementare la presenza dei ricercatori neri nel campo dell’intelligenza artificiale.
È la fondatrice del DAIR, istituto mondiale di ricerca per intelligenza artificiale che pone particolare attenzione all’Africa e all’immigrazione africana negli USA, per valutare i risultati dell’utilizzo della tecnologia sulle nostre vite.
Nata ad Addis Abeba, Etiopia, nel 1983, è figlia di un’economista e di un ingegnere elettronico morto nel 1988.
Fuggita dalla guerra, ha vissuto in Irlanda prima di ricevere asilo politico negli Stati Uniti, nel 1999 dove ha completato la sua istruzione superiore. Nel 2008 si è laureata in ingegneria elettronica alla Stanford University mentre già lavorava per Apple dal 2005. Si era interessata soprattutto alla creazione di software, vale a dire la visione artificiale in grado di rilevare figure umane. Ha continuato a sviluppare algoritmi di elaborazione del segnale per il primo iPad.
Nel 2016 ha partecipato a una conferenza sulla ricerca sull’intelligenza artificiale a cui avevano partecipato circa 8.500 persone. Non ha potuto fare a meno di notare che tra queste era l’unica donna ed erano presenti soltanto sei afroamericani.
Nell’estate del 2017 è entrata in Microsoft come ricercatrice post-dottorato nel laboratorio Fairness, Accountability, Transparency and Ethics in AI (FATE) e ha tenuto una conferenza sui pregiudizi che esistono nei sistemi di intelligenza artificiale e su come l’aggiunta di diversità nei team possano risolvere il problema. In quel periodo è stata coautrice di una famosa ricerca del MIT chiamata Gender Shades, in cui ha dimostrato, ad esempio, che le donne nere avevano il 35% in meno di probabilità di essere riconosciute rispetto agli uomini bianchi.
Nel dicembre 2020, è stata al centro di una controversia pubblica con Google, con cui lavorava da due anni come co-responsabile tecnica dell’Ethical Artificial Intelligence Team.
Profondamente contraria all’utilizzo dei sistemi di riconoscimento facciale per scopi di polizia e sicurezza, negli ultimi anni ha firmato apprezzati studi che hanno messo in luce come tali tecnologie tendano a replicare pregiudizi di stampo razzista e sessista.
Con sei collaboratori aveva firmato un articolo che metteva in guardia gli addetti ai lavori dallo sviluppo di modelli intelligenti di elaborazione del linguaggio, a forte rischio di introiettare termini e concetti sessisti, razzisti e perfino violenti affermando, inoltre, che la messa a punto di tali sistemi sarebbe anche estremamente dispendiosa dal punto di vista ambientale, con emissioni di anidride carbonica pari almeno a quelle di un volo andata e ritorno New York-San Francisco. Il tutto senza considerare i rischi connessi ai possibili usi distorti che potrebbero farne i malintenzionati.
Destinato a essere ufficialmente presentato a marzo, il lavoro era stato sottoposto a un processo di revisione interna che le ha richiesto di ritirare, se non l’intero documento, almeno le firme dei dipendenti Google coinvolti. Al suo rifiuto Google ha immediatamente interrotto il rapporto di lavoro con lei. In polemica per l’ingiusto licenziamento, anche altri due ingegneri sono andati via da Mountain View.
Migliaia di persone avevano firmato una petizione contro il suo ingiusto licenziamento, alcuni membri del congresso hanno chiesto delucidazioni alla società che si è vista costretta a rivedere l’assetto dirigenziale con uno scaricabarile delle responsabilità e a chiedere delle pubbliche scuse tramite social.
Per apportare cambiamenti al settore dall’esterno, il 2 dicembre 2021 ha lanciato il Distributed Artificial Intelligence Research Institute (DAIR), per coinvolgere le comunità che di solito sono ai margini del processo in modo che possano trarne beneficio, l’esatto opposto della prospettiva del soluzionismo tecnologico.
Uno dei primi progetti sarà quello di usare immagini satellitari per studiare l’apartheid geografico in Sudafrica, con ricercatori locali.
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