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Stefania Barca e il reddito di cura

Stefania Barca e il reddito di cura

Uno degli effetti della pandemia Covid-19 che ha riscosso maggiore attenzione mediatica e politica, è quello delle ricadute economiche nel regime di quarantena. Ne sono nate proposte governative (decreto ‘Cura Italia’) e non (reddito di quarantena, estensione del reddito di cittadinanza) che si confrontano nella sfera pubblica plasmando il campo delle possibilità e della lotta sociale e politica nel nostro paese.

Nel frattempo, anche il movimento femminista anti-capitalista internazionale sta lavorando per ridefinire il terreno della lotta in una direzione che permetta di dare risposte più inclusive e strutturalmente trasformative.

È nata così la proposta dell’istituzione di un Reddito di Cura che consiste nel riconoscere il lavoro di cura non retribuito (o mal-retribuito e senza diritti), prevalentemente attribuito alle donne e a soggetti marginalizzati, come una funzione sociale necessaria e ineliminabile, ma al tempo stesso invisibile e ignorata dalle misure anti-crisi – persino nel momento in cui pandemia e quarantena si traducono in un aggravio senza precedenti di tale lavoro.

Il Covid-19 è andato a sommarsi a tutte le pandemie invisibili (povertà, guerra, violenza domestica, austerità) che da decenni affliggono i settori più vulnerabili della popolazione – tra cui le famiglie monoparentali, le persone malate, disabili e anziane. La pandemia sta indebolendo la nostra capacità di resistere e sopravvivere fisicamente e finanziariamente (da sistemi immunitari già compromessi da povertà, discriminazione, inquinamento, guerra, occupazione, sfollamenti e altre violenze, a cure sanitarie e redditi inadeguati, specialmente nel Sud globale, nelle comunità razializzate al Nord e tra i rifugiati di tutto il mondo).

In questo momento critico, diventa dunque fondamentale organizzarsi e lottare per ridefinire collettivamente ciò di cui abbiamo bisogno.

La pandemia e il regime di quarantena hanno aggravato enormemente il carico del lavoro di cura non retribuito. L’esempio più comune è quello dell’istruzione dei figli; ma si potrebbero anche menzionare le azioni di solidarietà e di sostegno verso i soggetti più colpiti, di cui si stanno facendo carico tanti centri sociali e collettivi. Inoltre, la pandemia ha richiamato la nostra attenzione sull’importanza della produzione di cibo al di fuori dei circuiti dell’agribusiness – dagli orti urbani all’agricoltura contadina – che è emersa come una forma essenziale di lavoro da sostenere sempre più in futuro, anche in vista della sua funzione di contenimento rispetto a rischi pandemici. Anche quando si tratti di produzione per circuiti di mercato, gran parte di questo lavoro consiste in cura del comune (suolo, acque, microrganismi, vegetazione, semi) che viene svolto in forma non retribuita.

La pandemia si è configurata come condizione storica per la riemersione, in forme nuove, delle lotte per il salario al lavoro di cura non retribuito. Ha reso tale lavoro più evidente, ne ha chiarito il carattere di imprescindibilità, e ha mostrato in maniera più chiara le profonde disuguaglianze che lo caratterizzano; inoltre, ne ha allargato la sfera semantica, rendendo evidente come tale lavoro abbia luogo non soltanto nella casa, ma anche nei quartieri delle nostre città, e nei territori rurali intorno ad esse.

Il reddito di cura ha lo scopo primario di livellare le disuguaglianze generate dalla mancata retribuzione di gran parte della cura domestica, indipendentemente da chi la svolge. Eredita la lezione storica della campagna per il salario al lavoro domestico, il cui obiettivo era quello di combattere le profonde disuguaglianze di genere, ma anche di classe e razza, che caratterizzavano – e ancora in larga parte caratterizzano – il lavoro domestico.

Il Care Income persegue questo obiettivo rivendicando il principio che il lavoro di cura non retribuito è socialmente necessario e contribuisce in modo fondamentale al benessere collettivo, dunque ha pari dignità rispetto al lavoro retribuito, e che tale dignità, per avere un significato reale, esige un riconoscimento monetario. L’intuizione di fondo è che una equa remunerazione avrebbe l’effetto di elevare lo status sociale del lavoro di cura non retribuito, permettendo a tuttx (di qualsiasi sesso/genere, classe sociale e colore della pelle) di svolgerlo in condizioni dignitose.

Allo stesso tempo, il Care Income estende il significato di lavoro di cura dalla sfera domestica a quella comunitaria e ambientale. Riconosce che esiste in questi ambiti una enorme quantità di lavoro non retribuito, svolto volontariamente, per solidarietà ma anche necessità di sopperire a carenze istituzionali, specialmente in ambiti socialmente svantaggiati, affetti da degrado e abbandono, o minacciati dallo ‘sviluppo’ capitalistico. Il reddito di cura riconosce la rilevanza sociale di questo lavoro, che nella gran parte dei casi è svolto in forma collettiva e auto-organizzata attraverso associazioni e reti informali, e stabilisce il principio che tale lavoro vada compensato.

È importante specificare che il Care Income non è la stessa cosa di un reddito universale di base, ma si somma ad esso; mentre quest’ultimo (specialmente nella forma più radicale proposta dal movimento Non Una di Meno), punta a garantire il diritto all’autodeterminazione per tutti i soggetti sociali, indipendentemente dalle funzioni che svolgono, per combattere tutte le forme di ricatto e violenza legate alla dipendenza economica, il reddito di cura punta invece a compensare chi effettivamente svolga lavoro di cura non retribuito. Dunque, mentre il reddito di base serve a garantire auto-determinazione a tuttx, il reddito di cura serve per compensare il lavoro di cura al pari di altri lavori: esso si verrebbe dunque a sommare al reddito di base, così come è implicito che facciano altre forme di salario.

Non si tratta di garantire il mantenimento di un reddito esistente, ma di rivendicare l’istituzione di uno che non esiste.

In sintesi, il reddito di cura stabilisce un principio politico di uguaglianza e di giustizia sociale. Rifiutando la logica capitalista di valorizzazione del lavoro di cura attraverso il mercato, ne stabilisce il carattere di necessità per il benessere socio-ambientale, e ne rivendica un’equa compensazione su questa base. Nel fare ciò, il Care Income ridefinisce il significato di «necessità sociale», secondo la logica femminista, che non coincida con la produzione di valore aggiunto – cioè con le attività lavorative che contribuiscono maggiormente alla crescita del PIL – ma piuttosto con la riproduzione sociale, cioè con le attività che maggiormente contribuiscono al benessere collettivo.

Senza dubbio, regolamentare e implementare il reddito di cura solleverebbe una serie di problemi pratici. La regolamentazione deve dipendere dal contesto, e basarsi su sperimentazioni e sugli studi ad esse collegati. Ma tali sperimentazioni e studi necessitano di una domanda politica, di una spinta dal basso che esprima bisogni e principi in larga risonanza con la realtà vissuta da ampi soggetti collettivi.

Sono convinta che la campagna per il Care Income costituisca una opportunità unica per affermare politicamente il nuovo senso comune che sta emergendo dall’attuale fase di convergenza tra lotte e movimenti che lavorano per la giusta transizione verso una normalità post e anti capitalista/patriarcale.

Il GNDE si propone come piattaforma di lotta per la giustizia ambientale che si basa sul principio che la crisi ecologica è radicata nelle profonde disuguaglianze sociali e globali generate dal modello capitalista, coloniale e patriarcale.

Questo principio base consente oggi – forse per la prima volta in decenni – di pensare un femminismo che sia davvero la chiave di volta di un cambiamento radicale.

Stefania Barca è ricercatrice senior al Centro de Estudos Sociais dell’Università di Coimbra, dove coordina la Oficina de Ecologia e Sociedade. È co-fondatrice della rete di Ecologie Politiche del Presente e fa parte del Coalition Council del Green New Deal for Europe.

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