Quel giorno a casa arrivò la televisione e il tempo della famiglia subì una cesura, prima e dopo.
La mia era una famiglia composta da nonni, zie e genitori che coabitavano in una grande casa in via Chiatamone.
Negli anni cinquanta, così prossimi alla guerra, era una convivenza usuale, che per noi bambine, mia sorella ed io, rappresentava un ambiente di cura e di amore variegato, ma non privo di contraddizioni e di conflitti.
La televisione modificò l’organizzazione del tempo famigliare che cominciò a misurarsi sulla programmazione dell’unico canale, allora visibile e solo nelle ore serali.
Non c’era la possibilità di scegliere se non tra accenderla o spegnerla e questa seconda opzione si dava solo in una circostanza, che ricordo bene perché per me era una dolorosa privazione, quando si parlava della guerra e si trasmettevano immagini di sofferenza e di morte.
C’era negli adulti di casa un radicale rifiuto di ricordare e rivivere quelle esperienze che gli avevano profondamente segnati, bisognava dimenticare e andare avanti, relegando quegli eventi in un passato che andava sepolto e dimenticato.
Oggi, che viviamo la nostra guerra contro un nemico invisibile, mi domando quanto quella strategia di sopravvivenza ci abbia impedito di comprendere l’insensatezza di tanta violenza, di non riprodurla nelle nostre relazioni, di non costruire nemici da annientare, di non dare valore alla vita in tutte le sue infinite forme.
Oggi io non voglio dimenticare questo tempo di dolore e di paura, voglio conservarlo dentro di me come un bene prezioso che ci restituisce il valore dell’amicizia con il mondo, l’importanza di piccoli gesti quotidiani di cura per gli altri e per se stessi.
La nostra fragilità è la nostra forza perché ci consente di sentire, come diceva un filosofo, che anche una foglia è un’espressione della potenza della vita e sta a noi riconoscerla e conservarla.
Simona Marino, filosofa femminista.
#unadonnalgiorno