Sono in Palestina da due settimane e un’ora e non ho ancora parole per descrivere ciò che vedo. È difficilissimo per me pensare a cosa sta succedendo qui quando mi siedo per scrivere alle persone care negli Stati Uniti. È come aprire una porta virtuale verso il lusso. Non so se molti bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi dei proiettili dei carri armati sui muri delle case e le torri di un esercito che occupa la città che li sorveglia costantemente da vicino. […] Nessuno nella mia famiglia è stato colpito, mentre andava in macchina, da un missile sparato da una torre alla fine di una delle strade principali della mia città. Io ho una casa. Posso andare a vedere l’oceano. Quando vado a scuola o al lavoro posso essere relativamente certa che non ci sarà un soldato, pesantemente armato, che aspetta a metà strada tra Mud Bay e il centro di Olympia a un checkpoint, con il potere di decidere se posso andarmene per i fatti miei e se posso tornare a casa quando ho finito.
Rachel Corrie è stata una attivista statunitense schiacciata e uccisa da un bulldozer mentre compiva un’azione di resistenza pacifica opponendosi alla distruzione di abitazioni palestinesi da parte del governo israeliano.
Nata a Olympia, nello Stato di Washington, il 10 aprile 1979, studiava arte e relazioni internazionali all’Evergreen State College e lavorava attivamente per il Movimento per la Pace e la Giustizia della sua città.
Durante l’ultimo anno di università, si era recata a Rafah, nella striscia di Gaza, per partecipare attivamente, con l’International Solidarity Movement, alla resistenza nei confronti dell’esercito israeliano, durante l’Intifada di Al Aqsa.
Arrivata in Palestina nel gennaio 2003, aveva frequentato un corso di addestramento in filosofia e tecniche di resistenza non-violenta, prima di partecipare ad azioni dirette e dimostrative.
Da osservatrice dei diritti umani, ha documentato la distruzione delle serre e dei campi da cui migliaia di famiglie traevano sostentamento, la chiusura della strada per Gaza City che lasciava la città nel totale isolamento, la distruzione dei pozzi d’acqua necessari ai contadini e la sparatoria contro gli operai che cercavano di ricostruirli.
Spesso ospitata da famiglie palestinesi che condividevano con lei e i suoi compagni quel poco che restava loro, ha incontrato da vicino la miseria e visto con i suoi occhi cosa significa vivere quotidianamente sotto occupazione e avere negato l’accesso ai beni di prima necessità e alla libertà di spostarsi per qualsiasi scopo.
Oltre agli spari e ai bombardamenti, spesso le rappresaglie israeliane consistevano nel demolire le abitazioni dei presunti “terroristi” e delle loro famiglie.
Il 16 marzo 2003, Rachel Corrie, insieme ad altri sei attivisti dell’ISM, ha cercato di impedire le operazioni di due bulldozer corazzati che stavano demolendo delle case lungo la strada tra Gaza e l’Egitto, zona tenuta particolarmente sotto controllo da Israele, per evitare che gli stati arabi confinanti possano aiutare la resistenza palestinese o anche solo permettere agli abitanti della striscia di aggirare l’assedio.
Indossava un giubbotto rosso catarifrangente e impugnava un megafono: difficile passare inosservata dall’uomo alla guida del bulldozer che le avanzava contro. Stava provando a difendere dalla demolizione la casa di un medico palestinese. Erano già varie ore che le due parti si stavano fronteggiando, una armata e l’altra no.
Una tecnica usata spesso dai membri dell’ISM in casi simili consiste dell’arrampicarsi in piedi sulla montagna di detriti raccolti dal bulldozer fino a costringere l’autista a fermarsi o a cambiare traiettoria.
In un primo momento, la giovane attivista, si è seduta a terra davanti alla casa del dottore di Rafah, poi è salita sul cumulo di macerie spinto dal veicolo distruttore, entrando nella visuale dell’uomo alla guida che non si è fermato e ha proseguito. È caduta e il bulldozer l’ha schiacciata e coperta di terra, poi, non pago, ha fatto marcia indietro passandole sopra una seconda volta. Non si è fermato nonostante le urla e proteste dei suoi compagni per fermare il mezzo.
L’autista della ruspa è stato subito scagionato col pretesto che non l’aveva più vista dopo che era scivolata fuori della sua visuale e il suo omicidio derubricato come un incidente non intenzionale dovuto all’incauto comportamento dei manifestanti. È stato perfino negato qualunque rimborso alla famiglia della vittima.
Secondo fonti ufficiali dell’esercito, le operazioni di quel giorno dovevano servire a bonificare l’area da ordigni esplosivi nascosti “che i terroristi erano intenzionati a usare contro soldati e civili israeliani”. Inutile dire che di questi ordigni esplosivi non ne è stata ritrovata alcuna traccia.
E a nulla sono servite le fotografie scattate dai compagni della giovane attivista che smentivano la ricostruzione dei fatti da parte del governo israeliano.
Secondo l’ONU e l’UNRWA, nel 2003, quando Rachel Corrie era a Rafah, gli israeliani distruggevano in media 12 case a settimana; nel 2004 le demolizioni sono arrivate a 100 al mese.
Poco dopo la sua morte, alcune delle e-mail che aveva spedito a familiari e amici per raccontare la situazione in seguito lo scoppio della seconda intifada, sono state pubblicate dal quotidiano britannico The Guardian. Partendo da lì, il regista e attore inglese Alan Rickman e la giornalista Katherine Viner hanno raccolto, grazie alla famiglia, i suoi scritti dall’età di 12 anni fino al giorno della morte e ne hanno ricavato un monologo teatrale, Mi chiamo Rachel Corrie, che in Italia è uscito in libreria nel 2008.
La grande umanità e impegno di Rachel Corrie che, a soli 23 anni, ha perso la vita per sostenere la causa palestinese, non devono mai essere dimenticati.
È un nostro dovere morale ricordare il sacrificio di questa giovane donna che avrebbe potuto restare a casa sua e voltarsi, semplicemente, dall’altra parte, ma non l’ha fatto e ne ha pagato terribili conseguenze.
#unadonnalgiorno