Ero sopravvissuta ad Auschwitz e Ravensbruck. Ma irrimediabilmente provata nel fisico e brutalizzata nella mente. Né più né meno di tutti i reduci da quell’orrore d’Inferno. Spesso mi chiedo come personalmente ne sia uscita viva.
La ragione puntualmente mi porta l’unica risposta possibile: Resistenza!
Ondina Peteani è stata la prima staffetta partigiana.
Nata a Trieste il 26 aprile 1925, aveva cominciato giovanissima l’attività antifascista nel cantiere navale di Monfalcone dove lavorava come operaia.
Nell’inverno del ’43 si unì ai gruppi partigiani sul Carso nello specifico con la Brigata Proletaria. In seguito è stata riconosciuta la «prima staffetta partigiana d’Italia».
Venne arrestata due volte ed entrambe riuscì a fuggire. Fu poi catturata da una pattuglia tedesca nel 1944, venne portata al carcere del Coroneo, e dopo deportata, a mezzo carro bestiame, a Auschwitz. Sul braccio le tatuarono il numero 81672.
Successivamente, fu trasferita nel campo di Rawensbruck e poi in una fabbrica di produzione bellica ad Eberswalde, vicino Berlino, dove riuscì a portare avanti un insospettabile programma di sabotaggio, rallentando il ciclo produttivo, grazie a ripetuti, continui e pignoli controlli, con la scusa della verifica dei torni e delle parti prodotte.
Durante una marcia forzata che doveva riportarla a Rawensbruck, riuscì a fuggire dalla colonna dei prigionieri: era il mese di aprile.
Attraversando la Cecoslovacchia, l’Ungheria e la Jugoslavia arrivò a Trieste il 2 luglio 1945.
Dopo la guerra Ondina Peteani ha esercitato la professione di ostetrica, mantenendo l’impegno politico nel Pci, nell’Anpi e nel sindacato.
Negli anni Sessanta, aprì la prima agenzia degli Editori Riuniti nel Triveneto, centro d’incontro di intellettuali, artisti e attori.
In seguito, costituì il centro di aggregazione giovanile denominato «Circolo Ho Chi Min» e gestì diverse colonie estive e invernali in Italia e all’estero.
Divenne segretaria regionale del Sindacato Pensionati Italiani della Cgil e dirigente delle organizzazioni di ex deportati e dell’Anpi.
Il Lager l’aveva, però, segnata: come racconta chi l’ha conosciuta, la maledizione di quell’inferno atroce, la permanenza nel campo di sterminio, di cui pure parlava pochissimo, ha rovinato la sua esistenza dal punto di vista fisico, e ha minato il suo spirito, tanto da farle dire spesso:
«Non so cosa sia il sogno. Dal 1944 so benissimo cosa sia un incubo».
Ai malanni fisici, negli ultimi anni della sua vita si aggiunsero depressione e anoressia rifiutando, con crescente ostinazione negli ultimi anni, il cibo che non ha potuto condividere con la moltitudine di inermi trucidati nel Lager, ma nulla ha mai intaccato la sua fede per la libertà e l’indomita coerenza di antifascista e antirazzista, valori inestimabili che ne hanno contrassegnato l’identità.
È morta a Trieste nel gennaio 2003.
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