La fotografia mi ha salvato spesso la vita: ogni volta che ho passato un periodo traumatico sono sopravvissuta scattando. Il mio lavoro si basa sulla memoria. Per me è fondamentale avere un ricordo della gente che ho conosciuto, specialmente di chi mi è stato vicino, per consentirgli di vivere per sempre
Nan Goldin è una delle fotografe più celebri e controverse del XX secolo. I suoi ritratti spietati e sinceri hanno influenzato intere generazioni.
La sua arte è caratterizzata da un’ossessione verso la ricerca della verità, per quanto cruda e dolorosa. Attraverso la sua visione artistica documenta la vita.
Nota per il suo incessante attivismo, si è spesa nelle battaglie contro l’AIDS e, recentemente, contro il commercio farmaceutico degli oppioidi.
Ha contribuito a fondare il gruppo PAIN (Prescription Addiction Intervention Now), ha militato in ACT UP (AIDS Coalition to Unleash Power) con cui, nel 1989 ha organizzato la prima grande mostra sull’AIDS a New York e ha fatto parte del gruppo Visual Aids, promotore della giornata mondiale sull’AIDS del primo dicembre.
Nata col nome di Nancy a Washington il 12 settembre del 1953 da genitori ebrei, appartenenti alla piccola borghesia.
La sua infanzia è stata segnata dal suicidio della sorella maggiore Barbara Holly, appena diciottenne.
Nel corso della carriera le ha reso omaggio più volte attraverso lavori incentrati sugli ospedali psichiatrici, sul delicato tema del suicidio in età adolescenziale e sul difficile rapporto tra figli e genitori.
A 14 anni, dopo essere stata espulsa da diverse scuole per aver fatto uso di marijuana, ha abbandonato la casa dei genitori ritrovandosi a vivere in diverse famiglie affidatarie.
Nel 1968 si è iscritta alla Satya Community School di Summerhill, Massachusetts, dove ha stretto la duratura amicizia con David Armstrong, che l’ha ribattezzata con il nome di Nan. In quegli anni ha iniziato a sperimentare con la fotografia, con una Polaroid, sognando di diventare una fotografa di moda.
A Boston ha frequentato la scuola del Museum of Fine Arts. I corsi del fotografo Henry Horenstein hanno totalmente influenzato la sua estetica e il suo utilizzo della fotografia concepita come un diario pubblico.
I ritratti delle sue coinquiline, due drag queen, a casa e nei bar gay sono stati il soggetto del suo primo lavoro, Ivy wearing a fall, Boston (1973).
Nel 1978 si è trasferita a New York, dove ha partecipato alla fiorente scena artistica dell’East Village.
Il suo lavoro più noto è The Ballad of Sexual Dependency, una sorta di slide show composto da circa 700 immagini scattate tra il 1979 e il 1985, nelle quali Nan Goldin ha ripreso le sue esperienze personali e amorose all’interno della “famiglia allargata” in cui ha vissuto nel quartiere di Bowery, la sottocultura gay e dell’eroina, trasformando “l’istantanea familiare intima in un genere artistico” e in un’arte fotografica.
Si è anche ritratta, nel 1984, un mese dopo essere stata massacrata di botte da un fidanzato, nel celebre Nan One Month After Being Battered.
Nel 1989 ha toccato il fondo con le droghe pesanti ed è andata in riabilitazione.
A metà degli anni novanta il Withney Museum of American Art le ha dedicato la sua prima importante retrospettiva che ha sancito il suo successo sulla scena artistica contemporanea.
Nel 1995 Nan Goldin, in collaborazione con l’amico David Armstrong, ha diretto il film autobiografico I’ll be your mirror, prodotto dalla BBC, in cui narra, attraverso riprese video e fotografie, racconti e interviste, la sua vita personale e artistica, il dramma di un’intera generazione segnata dall’AIDS e dalla droga e la controcultura giovanile di quegli anni, i suoi sogni e le sue sconfitte.
Successivamente il suo lavoro si è allargato ad altri temi e collaborazioni: libri, skyline di New York, paesaggi, bambini, famiglie biologiche, genitorialità, di cui si trova ampia traccia nel libro The devil’s playground, pubblicato nel 2003, una collezione di fotografie che percorrono 35 anni della sua carriera.
La fotografia di Nan Goldin crede nella capacità dell’immagine fotografica di rappresentare e di indicare delle esperienze autentiche. Il suo obiettivo è parte integrante del suo corpo, in grado di registrare, senza alcuna censura, impressioni ed esperienze.
Ha dato vita a un monumentale documento visivo di ricordi e momenti di intimità. Sullo sfondo la malattia dell’AIDS e il sesso, che si mescola con elementi di lusso e miseria, lussuria e innocenza.
Nan Goldin corre la sua battaglia contro il tempo e contro la morte, cercando di preservare l’essenza di ciò che vive.
Un’artista che non lascia indifferenti, facendosi portavoce di un mondo underground e dannato, in cui, tuttavia, c’è spazio per valori universali in cui identificarsi.
La sua storia ci rende partecipi di un viaggio attraverso l’esistenza di una donna che non ha mai avuto paura della diversità. La macchina fotografica la rende testimone di un mondo collassato, ai limiti della decenza che, se si ascolta attentamente, spesso nel chiasso, copre grida di aiuto disperate.
Nan Goldin si è fatta vessillo dei dimenticati, dei nascosti, di coloro che vivono al margine di un mondo in cui le fragilità non sembrano essere ammesse, in cui l’istinto viene soppresso dalla formalità.
Ha nuotato in quel mare nero senza mai prenderne le distanze, cercando ostinatamente di raccontare ciò che invece sembra crogiolarsi nell’ombra.
Nel 2017 Nan Goldin ha rivelato che si stava riprendendo dalla dipendenza da oppioidi, in particolare da un farmaco assunto come antidolorifico per una tendinite di cui soffriva. Dopo essersi disintossicata era venuta a conoscenza delle responsabilità della famiglia Sackler, proprietaria della società farmaceutica Purdue Pharma e produttrice di OxyContin, nell’epidemia di oppioidi che aveva colpito gli Stati Uniti dalla metà degli anni Novanta, causando migliaia di morti per overdose da farmaco.
Con altri artisti, attivisti e persone che avevano vissuto la dipendenza dal farmaco, ha fondato PAIN (Prescription Addiction Intervention Now) che ha organizzato azioni dirette all’interno dei musei beneficiari dei generosi finanziamenti dei Sackler, lanciando flaconi di pillole sul pavimento, distribuendo opuscoli, esibendo striscioni di protesta o tenendo discorsi. A seguito di queste proteste e di quest’opera di sensibilizzazione, diverse istituzioni, come la National Portrait Gallery di Londra, hanno rifiutato le donazioni provenienti dalla miliardaria famiglia statunitense.
Ad aprile, Goldin ha parlato del suo movimento davanti al Senato degli Stati Uniti a Washington, DC.
Nel 2022 la regista Laura Poltras ha realizzato un film documentario su Nan Goldin intitolato All the Beauty and the Bloodshed, premiato al Toronto Film Festival e al New York Film Festival 2022, è stato premiato con il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia.
Una retrospettiva del suo lavoro come regista, dal titolo This Will Not End Wel, è stata programmata in ottobre 2022 al Moderna Museet di Stoccolma, come prima tappa di un tour internazionale che terminerà nel 2025.
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