Maria Zambrano è stata una filosofa, poeta e saggista spagnola.
Nata a Malaga il 22 aprile del 1904, è stata tra le prime donne spagnole a intraprendere le carriera universitaria in un contesto in cui “una filosofa, nella Spagna degli anni Trenta, era quasi ‘una donna barbuta’, un’eresia, una curiosità da circo“.
Dal 1921, frequenta la facoltà di filosofia all’Università di Madrid, a 24 anni si ammala di tisi, passando un intero anno in isolamento senza poter studiare. Dal 1931 al 1936 è assistente alla cattedra di metafisica. Il suo percorso viene segnato dalle lezioni di Zubiri, Garcia Morente e soprattutto di Ortega y Gasset, che sarà per lei un vero e proprio maestro, rispetto al quale riuscirà però a trovare, non senza conflitto, un cammino totalmente personale: la filosofia non poteva essere ripetizione o imitazione, ma sempre interpretazione a partire dalla propria esperienza.
Fin dagli anni universitari intrecciava filosofia e politica, pubblicando vari articoli in difesa della Repubblica, per scongiurare, e poi contrastare, la dittatura. Perseguitata dal regime franchista, perché aveva partecipato alla guerra civile, nel gennaio 1939 era nella colonna di profughi che abbandonava la Spagna. In 45 anni di esilio si è spostata per vari Paesi: Cile, Messico, Parigi, Cuba, Portorico.
Solo nel 1984, finalmente, può tornare in Spagna. L’esilio è stato un dramma, segnato dall’apprensione affettiva e dalla precarietà economica, ma anche un’esperienza di rivelazione che farà per sempre parte di lei. Spogliata di tutto, dello spazio in cui abitare e del tempo della libertà, le appare di accedere alla rivelazione della vera fisionomia della natura umana: siamo tutti «nati a metà», esseri incompiuti che non hanno mai finito di nascere. Eppure, nonostante la tragicità del momento che assomigliava tanto ad una morte in vita, Zambrano trova in sé un’energia di resistenza: una certa «fame di nascere del tutto» continua a spingere la sua anima verso la speranza di una nuova rigenerazione.
Nel 1987, viene insignita del dottorato honoris causa dall’Università di Malaga e l’anno dopo le viene conferito il prestigioso Premio Cervantes. Nel 1989, nasce la Fondazione che tutt’ora porta il suo nome. Due anni dopo, il 6 febbraio 1991, si è spenta a Madrid. Per sua volontà, la lapide porta incisa una frase del Cantico dei Cantici, emblema di quella fiducia nelle rinascite che attraversa fin dall’inizio tutta la sua filosofia: «surge, amica mea, et veni».
Pensatrice poliedrica, si è occupata di molti temi, ha criticato la filosofia contemporanea per il divorzio fra logica ed esistenza, convinta che «ogni verità pura, razionale e generale, deve sedurre la vita; deve farla innamorare».
La sua filosofia vuole essere poetica, pensiero che vive «secondo la carne» e non si stacca né dalle cose né dall’origine, e materna in quanto disponibile a rinunciare alla dialettica e all’astrazione per mantenersi aderente al concreto, accogliente e generante.
Maria Zambrano consegna all’Occidente un’eredità impegnativa: realizzare un mondo effettivamente democratico, dove ciascuno e ciascuna possa essere persona, unica realtà che davvero conti, perché solo nella persona «il futuro si fa strada».
L’avvenire auspicabile è una sinfonia, un’armonizzazione delle differenze che, per essere davvero incontrate e non soltanto sopportate, domandano pietà, cioè «sapienza di trattare con il diverso, con ciò che è radicalmente altro da noi».
Quello che Maria Zambrano offre è una filosofia della speranza: il sapere delle cose della vita è stato per lei frutto di lunghi patimenti, ma fino alla fine è rimasta certa che tale sapere «può sgorgare dall’allegria e dalla felicità».
La sua caratteristica più affascinante consiste in uno sforzo intellettuale e viscerale di dar voce a ciò che resta silente, di celebrare l’oscurità, l’altro lato dell’esistenza, quello esiliato, muto, nascosto ma profondamente `sentito’, che libera dalla tendenza assolutizzante e impone l’umiltà, compagna necessaria di ogni cammino di conoscenza.
Non ha amato alcun `sistema filosofico’, visto come “castello di ragioni, muraglia chiusa del pensiero di fronte al vuoto“. Ha sempre aspirato a una verità al di fuori di criteri e stereotipi, una “filosofia vivente”, disposta a confrontarsi con l’essere umano nella sua interezza. Il suo scrivere è stato caratterizzato da una vena poetica, spesso ironica, da cui emerge una figura trasgressiva e originale, profondamente vitale nella sua riflessività.
Maria Zambrano coniugò costantemente l’attività di insegnamento a quella della scrittura, pubblicando numerose opere che le procurarono tanti estimatori e le fruttarono ambiti riconoscimenti, sarà la prima donna a ottenere, nel 1989, il premio della letteratura in lingua castigliana “Miguel de Cervantes“.
In “Filosofia y Poesia” del 1939 chiamò “ragione poetica” un metodo di pensiero che, ispirato alla poesia e alla mistica, apriva un mondo di conoscenza alternativo a quello della filosofia occidentale.
Negli anni dell’esilio a Cuba, ha denunciato spesso la preoccupazione per l’esclusione delle donne dai luoghi del dire e del sapere ufficiale, il dolore per la mancanza di una parola femminile che restava muta, sottomessa, priva di riconoscimento e di voce. La negazione della donna reale è per la filosofa il riflesso dell’incapacità della vita umana di albergare l’amore in tutta la sua forza vitale e rivoluzionaria. Il tema centrale della sua riflessione filosofica verte intorno alla necessità di ‘coniunctio’ tra il mondo femminile e quello maschile, tra mente che crea e anima che sente e vive.
Il suo atteggiamento intellettuale, così come tutta la sua vita, rincorre il sogno di un’unione di opposti, capace di realizzare “il prodigio di vivere tra i due, conseguendo il nous senza perdere l’anima; addentrandosi per quanto è possibile nella libertà senza annientare né umiliare la vita delle viscere“. La filosofia di Maria Zambrano si ispira a figure come Antigone, Eloisa e Diotima, che hanno conosciuto la misericordia in quanto “hanno fatto dell’amore una filosofia di vita e della propria vita un’opera filosofica“.
Il suo è stato un ‘pensiero appassionato’, che aspira a una sintesi tra ragione e cuore, e dunque anche tra poesia e filosofia.
Per lei la filosofia è tutt’uno con la vita, significa trovare se stessi/e, giungere finalmente a possedersi, e la verità che ricerca non è qualcosa di astratto, ma concretezza esistenziale.
Molto di un certo pensiero moderno derivato anche da tanta psicanalisi, nel tentativo di dare soluzioni alla sofferenza opera l’ennesima mutilazione, crea i dogmi di una nuova religione, quella del benessere a tutti i costi, di cui è facile prevedere come un futuro potere potrà appropriarsi per rendere l’individuo ancora una volta omologato agli altri. Classificando si pone ordine, si mette in fila e nasce il superiore e l’inferiore, la normalità e la diversità, il ghetto, la violenza e tutto il sistema di controllo e repressione di cui la prigione, il manicomio, l’ospedale e la scuola sono stati e sono per l’occidente gli strumenti per coercizzare e piegare la diversità, la malattia, l’innocenza all’interno di un codice morale penalizzante, del quale è stato grande indagatore il filosofo francese Michel Foucault.
La rivolta dell’essere deve compiersi secondo una riappropriazione del proprio diritto alla sofferenza, a un dolore che è mistero, ricerca, tentativo individuale di spiegazione, che sempre si cerca, si trova un attimo solo per tornare a perdersi. Questa è la realtà che Maria Zambrano ci descrive nella sua dolentissima umanità, nel suo dignitosissimo modo, tutto umanistico, di accostarsi all’essere, senza violentarlo, con la compassione di chi sa qualcosa perché l’ha vissuta e preferisce tacere.
La sua filosofia non dà spiegazioni, il pensare non è analizzare quanto osservare, restare testimone, un’accettazione di cui lei costruisce una religione del silenzio e della dignità. Il coraggio di restarsene ai margini con un’umiltà molto solenne, senza voler per forza piegare la realtà nelle strettoie del bene/male, vero/falso, morale/immorale.
La sua parola è poetica, umile e povera. Maria Zambrano ha fatto del ‘pensare’ un’esperienza capace di coniugare ‘parola poetica’ e rigore geometrico.
Ne viene fuori un elogio e una restituzione di dignità filosofica alla passività, intesa soprattutto come patire. Si tratta di un ribaltamento di paradigma: la passività non è inerzia e quietismo, ma apertura. Nella relazione con l’altro per farlo esistere mi devo necessariamente un po’ ritirare, retrocedere, altrimenti non troverebbe neanche lo spazio.
A partire da Maria Zambrano, si capisce davvero la centralità del pensiero femminile per comprendere il presente. Pur non rinunciando a una visione radicale, non cede al nichilismo. La conoscenza è attenzione alla realtà, alle cose come sono, e nel contempo amore per il mondo.
Il suo ultimo scritto, pubblicato nel novembre 1990, è I pericoli per la Pace, composto di fronte all’orrore della guerra nel Golfo Persico.
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