“Le viol, c’est ce qu’il y a de pire pour une femme: c’est la négation d’elle-même”
(Lo stupro è la cosa peggiore per una donna; è la negazione di se stessa.)
Louisette Ighilahriz, psicologa algerina che ha vissuto gran parte della sua vita in Francia, è stata pluridecorata per la sua partecipazione alla guerra d’indipendenza dell’Algeria.
Ha fatto parte del Conseil de la Nation e del Front de Libération Nationale (FLN).
È l’autrice del libro Torturée par l’armée française del 2001, ristampato con il titolo di Algérienne, che narrando la sua storia della sua prigionia da parte dei francesi dal 1957 al 1962, ha riaperto il dibattito sulla tortura durante la Guerra d’Algeria.
Nata il 22 agosto 1936 a Oujda, in Marocco, in una famiglia berbera di origine algerina che proveniva dalla regione della Cabilia, un’area che si è opposta ferventemente al dominio francese. La sua era una famiglia di umili origini fortemente politicizzata, il nonno materno fabbricava clandestinamente produceva polvere di cannone in vista della rivoluzione per decolonizzare il paese.
A vent’anni, mentre era ancora una studentessa, è entrata a far parte del Fronte di Liberazione Nazionale della zona autonoma di Algeri, con il nome in codice Lila. Ha contrabbandato informazioni, armi e bombe nel pane cotto da suo padre, che era un fornaio.
Il 28 settembre 1957, durante una missione, cadde in un’imboscata dei paracadutisti francesi a Chébli e, gravemente ferita, venne catturata. In ospedale le somministrarono il Pentothal, il “farmaco della verità” per farla confessare, ma era riuscita a tacere.
Venne allora portata in una prigione militare, a Paradou Hydra, dove ha subito torture di ogni genere ed è stata ripetutamente violentata, “con ogni sorta di oggetti” nel tentativo di farle rivelare ciò che sapeva sull’FLN. Reclusa e lasciata nuda, per due mesi, in una piccola cella che non conteneva neppure un bagno, sporca del suo stesso sangue, escrementi e urina, si è arresa e ha parlato solo dopo che aveva saputo dell’arresto e tortura dei suoi familiari e visto suo fratello più piccolo impiccato davanti ai suoi occhi.
Dopo aver confessato, venne trasferita in Francia e imprigionata in diverse carceri fino a quando, nel gennaio 1962, è riuscita a scappare e in maggio, venne graziata con l’amnistia.
Una volta libera, si è laureata in psicologia e ha condotto una vita apparentemente normale senza mai parlare di ciò che aveva subito, per una promessa fatta alla madre spaventata dalle reazioni che la sua storia avrebbe potuto provocare nell’Algeria musulmana.
La sua storia è rimasta sconosciuta fino al 15 giugno 2000, quando il quotidiano Le Monde ha pubblicato una sua intervista in cui ha raccontato il suo calvario per incoraggiare altre donne e uomini algerini a denunciare pubblicamente ciò che avevano subito.
La vicenda ha destato scalpore anche perché a parlare in un francese fluente era una donna laureata e laica, che ha espresso il desiderio di vedere un’ultima volta, per ringraziarlo, François Richaud, il medico francese che l’ha sottratta alle torture. Ma questi era morto tre anni prima.
Dopo l’intervista, insieme alla giornalista francese Anne Nivat hanno scritto il libro Algérienne pubblicato, subito bestseller in Francia.
La decisione di far conoscere la sua storia è avvenuta nonostante l’opposizione della famiglia di Louisette Ighilahriz, dei suoi colleghi e del governo algerino, che ritenevano che il racconto dello stupro di una donna berbera fosse qualcosa di cui vergognarsi e di cui non si dovrebbe parlare.
Tornata a vivere ad Algeri, nel febbraio 2016, è entrata a far parte del Conseil de la Nation, l’alta camera del parlamento. Ma, impossibilitata a realizzare le riforme sociali che avrebbe voluto, nell’ottobre 2018, ha annunciato le sue dimissioni come atto di protesta contro il presidente Bouteflika in corsa per un quinto mandato.
Nel 2003 è stato presentato Woman is Courage, un documentario sulla sua storia. Nel 2022 è uscito per Le Monde il cortometraggio d’animazione dal titolo Louisette, che sintetizza le sue esperienze.