Una storia dolorosa quella di Lea Garofalo, che ha osato ribellarsi al sistema criminale in cui era nata mettendosi contro il suo ex compagno. Diventata collaboratrice di giustizia ha avuto il coraggio di testimoniare sulle faide interne della sua famiglia e contro il padre di sua figlia, che l’ha brutalmente ammazzata.
Nata a Petilia Policastro, in provincia di Crotone il 24 aprile 1974, a pochi mesi rimase orfana del padre, ucciso in una faida. Anche il fratello maggiore, dopo aver vendicato l’omicidio del genitore, venne ucciso in un agguato.
A quattordici anni, Lea Garofalo si innamorò del diciassettenne Carlo Cosco, aspirante affiliato alla ‘ndrangheta locale. Insieme ebbero una figlia, Denise, nata nel 1991.
L’uomo l’aveva scelta solo per acquisire maggiore prestigio agli occhi della sua famiglia. Quando la giovane donna realizzò di essere soltanto una pedina in mezzo a un ambiente criminale che non accettava, lo lasciò mentre questi era detenuto per traffico di stupefacenti e si trasferì con la bambina a Milano.
Ma nel 2002 le incendiarono l’auto sotto casa, segno evidente che le avevano trovate. Decise di rivolgersi ai Carabinieri e raccontare tutto ciò che, nel corso degli anni, aveva visto e sentito. Per le sue dichiarazioni, madre e figlia vennero inserite nel programma di protezione e trasferite a Campobasso.
La vita da collaboratrice di giustizia fu difficile e caratterizzata da una profonda solitudine. Le dichiarazioni di Lea Garofalo non sfociarono in alcun processo (salvo poi, nell’ottobre 2013, condurre all’arresto di 17 persone in varie città italiane) e per questo motivo le venne revocata la protezione dello Stato. Vinse il ricorso al Consiglio di Stato e nel 2007 fu riammessa al programma a cui rinunciò inaspettatamente nell’aprile del 2009, pochi mesi prima della sua scomparsa. Non doveva essere facile condurre una vita in segretezza per una giovane donna sola e provata che doveva pensare anche a i bisogni della sua bambina. Probabilmente non aveva retto la tensione e l’isolamento e riallacciò i contatti col suo paese d’origine. Rivide anche l’ex compagno, cosa che le fu fatale.
Gli anni non avevano cancellato il rancore e la rabbia di Carlo Cosco nei suoi confronti. Tentò di farla rapire il 5 maggio 2009 e venne messo in misura cautelare dopo la denuncia dell’ex compagna. La sete di vendetta del criminale venne soddisfatta il 24 novembre 2009 quando riuscì a attirarla in un appartamento a Milano con la scusa di parlarle della loro bambina. Avevano trascorso qualche giorno insieme e lei era tornata, ingenuamente, a fidarsi di lui. L’uomo, la ammazzò e con la complicità di altri ne bruciò il corpo per giorni fino alla sua completa distruzione. Fu soltanto dopo le dichiarazioni del pentito Carmine Venturino, che furono rinvenuti dei frammenti ossei e la collana di Lea Garofalo.
È stato grazie alla tenacia di Denise Cosco che si sono tenuti i processi per l’omicidio della madre. Volevano farle credere che fosse scappata e l’aveva abbandonata, ma la ragazza sapeva che non era possibile.
Il 18 ottobre 2010 scattarono le manette per Carlo Cosco e per gli altri uomini accusati di aver partecipato al delitto. Il processo di primo grado iniziò il 6 luglio 2011. Non venne concessa l’aggravante mafiosa perché per i giudici non si poteva parlare di delitto di ‘ndrangheta, e alla giovane Denise non venne riconosciuto lo status di familiare di vittima di mafia.
In sede processuale, la giovane si costituì parte civile, dichiarandosi “orgogliosa di essere contro il padre“. Gli imputati erano sei, Carlo Cosco, i suoi due fratelli, l’uomo che aveva tentato il sequestro a Campobasso e altri due compari. L’accusa era di aver sequestrato, torturato e ucciso Lea Garofalo la notte tra il 24 e il 25 novembre 2009 e di averne distrutto il cadavere in 50 litri di acido su un terreno a San Fruttuoso, quartiere di Monza.
Il 30 marzo 2012 venne emessa la prima sentenza: ergastolo per tutti e sei gli imputati.
Nel corso dell’estate 2012, Carmine Venturino decise di collaborare con la giustizia. Il giovane venticinquenne, assoldato per controllare Denise e impedirle di fare ulteriori deposizioni ai Carabinieri, si era innamorato della ragazza che era ignara del suo coinvolgimento.
Venturino raccontò agli inquirenti che fu proprio per merito del coraggio di Denise e dell’amore che provava per lei che si era deciso a raccontare la verità.
Al processo di appello nel 2013, l’uomo raccontò che era stato Carlo Cosco a uccidere Lea Garofalo, strozzandola con il cordino per raccogliere le tende. Poi, con la complicità di altri, avevano trasportato in campagna in uno scatolone il corpo della donna che avevano poi distrutto, per due giorni.
Cosco si difese parlando di raptus di pazzia, di uno spintone dato alla donna dopo aver perso la pazienza, del fatto che lei avesse battuto la testa e fosse morta per questo.
Finché la vicenda di Lea Garofalo non assunse rilievo nazionale, la grande carta stampata ignorò totalmente la vicenda. A seguire invece tutte le udienze del processo furono la giornalista Marika Demaria del mensile Narcomafie, e gli studenti del sito web Stampo Antimafioso.
Il 18 dicembre 2014, la Cassazione, ha confermato le condanne emesse dalla Corte d’Appello di Milano a carico dei cinque imputati che hanno ricevuto l’ergastolo, mentre l’ex fidanzato di Denise, Carmine Venturino, ottenne 25 anni per aver collaborato con la giustizia.
Il 19 ottobre 2013, in piazza Beccaria, tremila persone diedero l’estremo saluto a Lea Garofalo. I funerali civili vennero seguiti in diretta da Rainews 24 e tutte le testate nazionali si occuparono della storia. Finalmente alla vicenda, per mesi passata sotto silenzio, venne dato il giusto risalto.
Lo stesso giorno dei funerali, nei giardini di fronte all’ex-fortino dei Cosco dove abitavano abusivamente nelle case popolari, venne affissa una targa in memoria di Lea Garofalo, testimone di giustizia.
Il 7 dicembre 2013 il Comune di Milano ha conferito a Denise Cosco l’Ambrogino d’Oro, l’alta benemerenza civica riservata a chi ha illustrato la città di Milano: per il coraggio avuto nel denunciare suo padre.
La storia di questa coraggiosa giovane donna e di sua figlia, segnata inesorabilmente da un destino così crudele è stata raccontata in una bella puntata del programma televisivo La Tredicesima Ora di Carlo Lucarelli e Peppe Ruggiero. Il regista Marco Tullio Giordana ne ha fatto un film dal titolo Lea.
Lea Garofalo viene ricordata il 21 marzo, nella Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo di tutte le vittime innocenti delle mafie, organizzata da Libera.
In vita non è stata mai creduta, hanno sottovalutato il pericolo in cui si trovava, e solo dopo la sua atroce morte e grazie all’ostinazione di sua figlia, si sono cercati i colpevoli. Lea Garofalo è stata vittima di mafia e di femminicidio, è stata una donna che ha osato ribellarsi al sistema criminale in cui era cresciuta, ha voluto per sua figlia un destino diverso e ha pagato la sua scelta di libertà con una morte atroce, ma il ricordo del suo coraggio non deve mai scomparire, lo dobbiamo a lei che non si è piegata e ha lottato fino all’ultimo minuto.
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