Irasema Fernández è scrittrice, attivista e artista messicana.
I suoi murales in bianco e nero, dipinti spesso in contesti caratterizzati da ruderi grigi di una provincia urbana che pare perennemente bombardata. Sono raffigurazioni in negativo di una realtà pronta a confessarsi: corpi di donne che si baciano avvinghiati da una tropicale vegetazione sbiancata, e poi una sottile presenza animale, maschere di animali nudi su genitali femminili nudi.
Noi donne siamo quasi sempre state immortalate a dipingere cose in piccolo formato, in miniatura.
Per me il mural può invece contestare questo diktat, lavorando sul grande formato pubblico. E poi il mural ha una potenza che il testo non può avere, essendo il pubblico dei lettori molto più ridotto.
Fa parte di un collettivo di sei artiste che si chiama Mujeres desde las periferias che lavora principalmente nell’Estado de México, una delle regioni con il più alto tasso di femminicidi.
Le persone del luogo interagiscono in vario modo: le nonne e le bambine scrutano i nostri lavori, a volte scandalizzate a volte incuriosite, gli uomini alternano il rifiuto ad una violenza che spesso si esprime con la manomissione, la graffiatura, la cancellazione dei nostri lavori.
Una volta si è avvicinata una donna, e ci ha chiesto ‘Verreste a fare i vostri murales dalle mie parti?’ Era una prostituta. Ci ha raccontato che i poliziotti della zona in cui lavorava picchiavano lei e le sue colleghe, perché volevano più soldi rispetto alle quotidiane mazzette che chiedevano loro.
I loro murales di donne nude in protesta, sono rivolti ai maschi messicani.
Ogni giorno, almeno dieci donne messicane sono assassinate.
Lo scorso gennaio la conta arrivava a oltre 300 donne.
Per me parlare dell’essere donna in Messico significa parlare di sicurezza anche economica.
È una questione di classe. Di solito, è la classe media o medio-alta quella più attenta al tema della violenza di genere. Perché è composta da chi fa giornalismo, chi fa ricerca all’università, o chi fonda ad esempio case di recupero per le donne vittime della trata de blancas.
Nella classe bassa, spesso, non si riescono i disastri che ha prodotto il patriarcato.
Pensa alle donne della classe bassa, estenuate da ritmi lavorativi sfiancanti, oppure che lavorano full time come muchachas [le donne di servizio] a casa delle famiglie benestanti, non hanno proprio il tempo di pensare all’oppressione che vivono ogni giorno!
Molte donne zapatiste, che nello zapatismo hanno un ruolo spesso molto forte, rifiutano il femminismo, lo considerano una cosa di élite, roba da blancas, da white feminism. Quindi anche lì trovi questa resistenza.
Abbiamo lanciato lo slogan A mi me cuidan mis amigas, ‘a me proteggono solo le mie amiche’, a seguito della violenza contro la minore ad Atzcapozalco lo scorso anno.
In quei giorni, io ed altre donne abbiamo organizzato quella che doveva essere una piccola manifestazione.
Siamo state sorprese invece dall’arrivo di migliaia di donne, che in una sola settimana hanno inondato come un fiume in piena le strade attorno al monumento dell’Ángel de la Independencia, sul paseo de la Reforma.
Era la prima volta che noi donne messicane marciavamo libere.
Sentivamo addosso una sorta di super-potere molto strano. Per la prima volta, gli uomini per strada, quegli stessi uomini che in questo paese considerano le donne le classiche ‘vittime buone’, si facevano da parte, avevano paura.
Ci furono devastazioni, molto criticate dalla stampa locale, su uno dei simboli della città, l’Ángel de la Independencia.”
Il famoso monumento dell’Angelo, la Nike dorata, che celebra l’indipendenza del Messico, secondo il volere del dittatore Porfirio Diaz che lo volle agli inizi del ‘900.
Chi ha progetto quel monumento era il padre di Antonieta Rivas Mercado. Antonieta era una donna straordinaria per la sua epoca: attrice, scrittrice, mecenate, e davvero prima femminista messicana.
Una donna che si è suicidata nel 1931 dentro la cattedrale di Notre Dame, con la pistola dell’amante, uno degli uomini più potenti del Messico dell’epoca, José Vasconselos.
Antonieta chiedeva alle donne messicane a inizio Novecento di uscire dalla loro gabbia di leggi morali e sociali imposte dal patriarcato.
C’è ancora molto da fare, non solo in Messico, per rompere logiche e linguaggi del potere degli uomini, per questo, è nato il movimento Mujeres Juntas Marabunta.
Termine coniato dalla scrittrice Carla Faesler, modificando il detto Mujeres juntas ni difuntas.
Un detto terribile, ‘Le donne assieme manco morte’, per definire l’acerrima competizione delle donne, strategia vincente del patriarcato.
Marabunta sono invece un tipo di formiche africane molto voraci, che si muovono in gruppo, in orde, e provocano ingenti devastazioni. Da lì il nome.
Il movimento è composto da scrittrici, editor, correttrici di bozze, redattrici, organizzatrici culturali, che si sono riunite lo scorso anno attorno all’hashtag #MeTooEscritoresMexicanos.
Hanno denunciato sui media l’abuso e la violenza di genere degli uomini nei confronti delle donne a ogni livello dell’industria editoriale messicana.
Lunghe liste in cui sono comparsi i nomi di direttori editoriali, poeti, redattori.
Irasema produce anche una piccola rivista FanzinA.
Un dazebao portatile, contenente slogan per le prossime manifestazioni femministe, a metà tra antologia e vademecum.
#unadonnalgiorno