Ilaria Alpi giornalista e fotoreporter italiana del TG3, nata a Roma il 24 maggio 1961 e assassinata a Mogadiscio, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994.
Una giovane donna forte e determinata, battagliera e femminista.
La sua laurea in lingua e letteratura araba, conseguita con il massimo dei voti presso l’Istituto di Lingue orientali dell’Università La Sapienza di Roma, è stata il suo passaporto verso il Medio Oriente. Grazie anche all’ottima conoscenza delle lingue, ottenne le prime collaborazioni giornalistiche dal Cairo per conto di Paese Sera e l’Unità. Successivamente vinse una borsa di studio per essere assunta alla Rai. Le sue corrispondenze dal Cairo raccontavano l’Egitto, non solo dal punto di vista economico e politico, ma anche culturale. La lettura di quegli articoli restituisce, ancora oggi, un modo diverso di raccontare i paesi arabi.
Ilaria Alpi è stata uccisa a Mogadiscio, insieme all’operatore Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994, mentre erano a bordo di un pick-up Toyota che attraversava la capitale somala, dopo essere tornati, da poco, da un incontro fuori Mogadiscio con il sultano del Bosaso. Una Land Rover tagliò loro la strada, ne discesero almeno 7 persone armate che li freddarono.
Ilaria Alpi giunse per la prima volta in Somalia nel dicembre 1992 per seguire, come inviata del TG3, la missione di pace Restore Hope, coordinata e promossa dalle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1991, dopo la caduta di Siad Barre. Le inchieste della giornalista si sarebbero poi soffermate su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici che avrebbero visto, tra l’altro, la complicità dei servizi segreti italiani e di alte istituzioni italiane: Ilaria Alpi avrebbe scoperto un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate con i gruppi politici locali.
Ilaria Alpi aveva intervistato il sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor, che riferì di stretti rapporti intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo di Siad Barre, verso la fine degli anni ottanta. La giornalista era anche salita a bordo di alcuni pescherecci sospettati di essere al centro di traffici illeciti di rifiuti e di armi: si trattava di navi che inizialmente facevano capo a una società di diritto pubblico somalo e che, dopo la caduta di Barre, erano illegittimamente divenute di proprietà personale di un imprenditore italo-somalo. Tornati a Mogadiscio, Alpi e Hrovatin non trovarono il loro autista personale, mentre si presentò Ali Abdi, che li accompagnò all’hotel Sahafi, vicino all’aeroporto, e poi all’hotel Hamana, nelle vicinanze del quale avvenne il duplice delitto. A bordo del mezzo si trovava anche Nur Aden, con funzioni di scorta armata.
Diversi documenti e testimonianze affermano che Ilaria Alpi stava arrivando al cuore dei malaffari che legavano la Somalia all’Italia e ai Paesi dell’Est, dai quali provenivano gli armamenti, pagati col permesso di seppellire in loco le sostanze nocive.
Per l’uccisione di Ilaria e Miran è stato condannato in via definitiva a ventisei anni di carcere uno dei presunti killer, Omar Hashi Hassan. Da tempo, però, numerose testimonianze e documenti mettono in discussione la sua colpevolezza. Ali Rage Ahmed, detto “Gelle”, il principale accusatore di Hassan, è sotto processo per falso e calunnia.
Gelle ora sostiene di essere stato pagato per mentire per quella che fu una vera esecuzione, un duplice omicidio organizzato. Restano da individuare i veri colpevoli, esecutori e soprattutto i mandanti.
Sulla morte di Ilaria e Hrovatin da subito, infatti, sono circolate le ipotesi più diverse, ma ci sono circostanze che inducono a ritenere che Ilaria avesse scoperto fatti e attività legati a traffici illeciti di armi e rifiuti tossici legati alla cooperazione, elementi emersi da un’intervista che Ilaria realizzò a Bogor, sultano di Bosaso.
La cassetta della registrazione è arrivata in Italia incompleta, probabilmente manomessa.
Una volta visionata in studio, l’intervista apparve monca, incompleta. La registrazione durava in tutto tredici minuti, e le dichiarazioni del sultano risultavano spezzettate, come se Miran, contrariamente al proprio costume, avesse di continuo interrotto la ripresa. Due anni dopo il giornalista Maurizio Torrealta tornò a intervistare Bogor, che ammise che l’intervista rilasciata a Ilaria era stata assai più lunga, almeno due ore, non tredici minuti; e che la giornalista gli aveva fatto parecchie domande sul traffico di armi e di rifiuti. Delle domande e delle relative risposte però non c’era traccia nella cassetta restituita alla Rai.
Ilaria non fece in tempo a trasmettere il servizio. Una telefonata le fece lasciare in fretta e furia, insieme a Miran, l’Hotel Sahafi, dove alloggiavano, per raggiungere l’Hotel Hamana. Non si conosce né il motivo di quell’allontanamento repentino né la persona o le persone che avrebbe incontrato.
I genitori, Luciana Riccardi e Giorgio Alpi hanno combattuto strenuamente per arrivare alla verità e alla giustizia sulla morte della loro unica figlia. Sono entrambi morti senza venire a capo di cosa sia realmente successo e su chi sono stati i mandanti. Nell’ottobre 2008 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito loro la Medaglia d’oro al Merito civile.
Quale mistero nasconda Bosaso, piccola città del Nord-Est della Somalia affacciata sul golfo di Aden, ridotta a un ammasso di rovine da 10 anni di guerra civile, non ci è dato saperlo. Un fatto è certo: tra il 16 e il 20 marzo 1994 Ilaria Alpi lavorò a Bosaso con l’operatore Miran Hrovatin. Qualche ora dopo aver rimesso piede a Mogadiscio, i due giornalisti furono uccisi in un agguato. Cosa videro, esattamente? La domanda è senza risposta, perché da allora omissioni, coperture, depistaggi, silenzi hanno impedito ai familiari, e a tutti gli italiani, di sapere.
Armi, rifiuti tossici, scorie radioattive, tangenti e riciclaggio di denaro sporco. In questo intricato scenario potrebbero nascondersi movente e mandanti del duplice omicidio.
Ilaria Alpi, a detta di un agente segreto, adesso detenuto, aveva ficcato il naso negli affari del sultano, aveva ripreso delle scene nel Nord della Somalia, con delle lunghe carrellate sulle casse di materiale in mano alle “bande” di Bosaso. Quel che c’era nelle cassette era materiale scottante. Nessuna minaccia le avrebbe impedito di raccontare la storia del peschereccio e di denunciare i traffici illeciti che Bogor aveva confermato.
Diversi testimoni raccontano agli inquirenti un articolato sistema di traffici di armi, rifiuti pericolosi e scorie radioattive, i cui proventi alimentavano in parte conti neri o finivano in tangenti. Un sistema gestito da faccendieri italiani e stranieri, che chiamano in causa complicità politiche legate in special modo all’area socialista. Testimoni e faccendieri fanno ripetutamente i nomi di Paolo Pillitteri e di Pietro Bearzi, all’epoca rispettivamente presidente e segretario generale della Camera di commercio italo-somala, stretti collaboratori di Bettino Craxi, nonché i nomi di uomini dell’Intelligence dell’Italia e di altri Paesi. In particolare, gli investigatori di Torre Annunziata, sulla base del materiale raccolto, ritengono che Ilaria Alpi possa essere stata uccisa non tanto per aver raccolto informazioni e prove su presunti trasporti di armi fatti con i pescherecci della società italo-somala Shifco, quanto per aver scoperto a Bosaso depositi di armi trasportate da Hercules C-130 italiani e ancora recanti l’indicazione della loro provenienza dai Paesi dell’Europa orientale.
Per fronteggiare la guerra civile che lo vedeva perdente, il dittatore somalo Siad Barre, tra il 1990 e il 1991, aveva chiesto ai suoi referenti socialisti in Italia di procurargli «armamenti di alta tecnologia». Si aprì allora un canale di rifornimento con i Paesi del blocco orientale. Arrivarono armi, dall’Italia alla Somalia, via mare e via cielo, sotto gli occhi della missione Onu.
Nel corso di indagini diverse, altri inquirenti avevano d’altronde acquisito un documento datato settembre 1992 che ricostruiva, traccia dopo traccia, una spedizione di componenti di carri armati Leopard 1 e Leopard 2 fabbricati da una ditta tedesca, partiti dal porto di La Spezia e arrivati a Mogadiscio (forse destinati a rifornire gli arsenali dell’Iran o dell’Irak).
Aveva scoperto il traffico di armi, ma anche rifiuti tossici o radioattivi, che provenivano dall’Italia e venivano seppelliti in un’area desertica nel Nord della Somalia. Ilaria Alpi ha toccato il segreto più gelosamente custodito in Somalia, lo scarico di rifiuti pagato con soldi e armi. Era capitata su uno dei punti sensibili che la Somalia cercava affannosamente di proteggere e che l’Italia aveva la necessità di coprire.
Li abbiamo armati invece di aiutarli.
Hashi Omar Hassan, l’unico responsabile secondo la giustizia italiana del duplice omicidio, ha scontato in carcere 16 anni, ha ottenuto 3 anni di sottrazione pena con l’indulto e la liberazione anticipata di 4 anni per buona condotta.
Il più crudele dei giorni non è solo il titolo del film che ricostruisce la vicenda di Ilaria Alpi, è soprattutto la sintesi di una vicenda giudiziaria che non è né chiusa né chiara.
#unadonnalgiorno