I capelli stretti da un fazzoletto alla corsara, seduta in mezzo alle compagne, Gigliola Pierobon ascoltava con amarezza i giudici del Tribunale di Padova emettere la sentenza del processo che la coinvolgeva come imputata, quella sera del 7 giugno 1973.
Il verdetto dei giudici fu un perdono giudiziale, in virtù “della profonda pietà che non può non rivolgersi verso chi si trovi moralmente impreparata ad affrontare problemi implicanti un generoso e duro sacrificio” e “della resipiscenza dimostrata con la consapevole accettazione di una seconda maternità“.
I fatti risalivano a sei anni prima, quando, Gigliola Pierobon, a soli 17 anni, rimasta incinta e abbandonata dal suo ragazzo, terrorizzata dall’idea di essere cacciata di casa, aveva conosciuto il triste percorso dell’aborto clandestino.
Sul tavolo da cucina di una levatrice, per 30 mila lire, senza anestesia né antibiotici per i giorni successivi, questa povera figlia di contadini aveva messo fine a una gravidanza tanto indesiderata quanto inaspettata.
Poi, con le ginocchia che tremavano e il dolore per la sonda, se ne era tornata a casa, al suo paese, San Martino di Lupari, in provincia di Padova.
I giorni successivi furono segnati da dolorosissime complicanze, come ha poi raccontato nella sua autobiografia politica, ma, tecnicamente, la cosa andò a buon fine.
Fu, però, richiamata dalla Procura anni dopo, per via del contatto con quella levatrice e di un’inchiesta che si era aperta su altri fronti.
Fu così che la giovane confessò, raccontando per filo e per segno come e quando aveva abortito. Iniziarono le domande dettagliate sulla procedura abortiva (spesso pretestuose, su gesti e posizioni), si effettuarono perizie (anche ginecologiche, dopo quattro anni dai fatti, su un corpo che nel frattempo aveva partorito un bambino), si indagò sulla sua vita sentimentale (il matrimonio, la separazione) cercando di minarne l’immagine e la dignità.
Il momento d’inizio della lunga battaglia per la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza fu, molto probabilmente, proprio il processo a Gigliola Pierobon.
La sua avvocata, Bianca Guidetti Serra, trasformò il processo in un evento politico-mediatico.
Fu il processo per tutti gli aborti, quelli delle tante, troppe italiane che nella clandestinità si rivolgevano alle mammane, a medici prezzolati o che semplicemente facevano da sole, nella solitudine, nella vergogna, nel dolore e nella paura.
Una gravidanza non voluta, spesso dettata dalla disinformazione e da una mancata contraccezione, diventava un dramma, specialmente per quelle che un aborto all’estero o in una clinica privata non potevano permetterselo: a loro restava solo il ferro da calza e il rischio di una perforazione dell’utero, di una infezione pelvica o di una emorragia.
Era un processo politico, quello contro Gigliola Pierobon, che però i giudici si rifiutarono di vedere come tale.
L’aborto, era ancora vietato da norme di epoca fascista e inserito fra i delitti “contro l’integrità e la sanità della stirpe” con pene da due a cinque anni.
Nel 1974, a seguito della morte in ospedale di una ragazza a causa delle complicazioni di un aborto clandestino, il Tribunale di Torino aveva incriminato centinaia di donne per procurato aborto, dopo averne acquisito le cartelle cliniche.
Nel gennaio del 1975, “l’Espresso” assieme alla Lega 13 Maggio, intraprendeva una campagna per promuovere un referendum abrogativo degli articoli del codice penale che vietavano l’interruzione di gravidanza.
Un ruolo importante fu giocato anche dai fatti di Seveso del 1976. Lo scoppio di un reattore della fabbrica chimica Icmesa rilasciò nell’atmosfera una nube di diossina, sostanza che oltre a provocare numerosi ricoveri nei giorni successivi poteva causare gravi malformazioni fetali. Il che permise, quanto meno per le donne della zona, di rivolgersi ai ginecologi della Mangiagalli e di ricorrere all’aborto terapeutico.
Insomma, il Parlamento non poteva più tacere di fronte al dramma dell’aborto clandestino, per quanto divisivo fosse l’argomento.
Attorno al tema nacque e si sviluppò il movimento delle donne, con tutte le sue varianti. Il primo, tra i gruppi organizzati, fu il “Movimento di liberazione della donna” (Mld), presto federato con il partito Radicale di Marco Pannella: fra i suoi obiettivi principali, proprio la legalizzazione dell’aborto e un referendum per ottenerla.
In un’ottica ancora diversa, un’altra propaggine radicale, il Cisa diretto da Adele Faccio (dove presto si attiverà la giovane Emma Bonino) scelse le iniziative concrete della disobbedienza civile: Bonino accompagnava periodicamente gruppi di donne di altre città a abortire clandestinamente a Firenze, nell’ambulatorio del ginecologo radicale Giorgio Conciani; un altro gruppo femminista, il Crac, organizzava viaggi analoghi a Londra.
Tutto questo andirivieni non sfuggì alla polizia, che nel gennaio del 1975 fece irruzione nella clinica fiorentina e oltre a Conciani arrestò quaranta donne in attesa dell’intervento.
Scattarono le manette anche per Adele Faccio e Emma Bonino, oltre che per il segretario radicale Gianfranco Spadaccia.
Era la prima volta dalla fine del fascismo che veniva arrestato un segretario di partito.
Anche la stampa finì sotto tiro, L’Espresso, che aveva pubblicato in copertina l’immagine di una donna incinta, nuda e inchiodata a una croce, fu sequestrato per vilipendio della religione e il direttore Livio Zanetti denunciato.
Diverse manifestazioni di protesta si tennero in varie città italiane e i radicali riuscirono a raccogliere le firme per un referendum sull’aborto, a cui non si giunse per lo scioglimento delle Camere, nel 1976.
Intervenne la Corte Costituzionale che dichiarò non punibile l’aborto terapeutico in base al principio che il diritto alla vita e alla salute di «chi è già persona» non è equivalente a quello di chi «persona deve ancora diventare».
Fu un’apertura importante e anche il Parlamento si mosse con un testo dove l’aborto veniva dichiarato lecito, ma con la decisione finale spettante al medico anziché alla donna.
Il movimento, cresciuto tumultuosamente, si rivoltò e il 6 dicembre a Roma 20 mila donne sfilarono per le strade al grido di: Vogliamo l’autodeterminazione, la libertà e la responsabilità di decidere del nostro corpo.
Per sottolineare questa posizione le donne del movimento chiesero ai maschi di non partecipare al loro corteo.
Vennero contestati anche i leader di sinistra: «Berlinguer, non passerai sulla pancia delle donne», era uno degli slogan ricorrenti; negli anni del compromesso storico con la DC aleggiava infatti il sospetto di un PCI troppo cedevole su temi cari ai cattolici e al Vaticano.
E in effetti nella proposta comunista era prevista addirittura, per la decisione finale, una commissione di tre esperti, quasi un piccolo tribunale.
A svolgere una mediazione importante ci pensò l’Udi, la storica associazione delle donne della sinistra, che si era battuta per l’autodeterminazione.
Così, quando la Dc e i neofascisti del Msi fecero passare con un colpo di mano un articolo che di nuovo definiva l’aborto come un reato, il movimento mise in atto la sua manifestazione più grande, quella “delle 50 mila donne”.
Nonostante i vari tentativi di impugnare la legge da governi successivi, e le tante critiche che volevano far credere che l’interruzione di gravidanza sarebbe stata usata come anticoncezionale, nella storia il tasso di abortività è sceso ovunque e rapidamente.
Se nel 1982 il tasso di abortività era di 17,2 Ivg ogni 1.000 donne tra i 15 e i 49 anni, nel 2016 è stato di 6,5: un taglio del 64% che pone l’Italia tra i Paesi occidentali oggi a più bassa abortività.
#unadonnalgiorno
Gigliola Pierobon è la contadina veneta grazie a cui l’aborto non è più un reato.
Nel 1973, finì alla sbarra, con l‘accusa di aver abortito.
Dal suo caso iniziò la battaglia che portò alla depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza e poi alla legge 194.