Nel 2014, Loujain al-Hatlhoul, classe 1989, originaria di Gedda, in possesso di una patente degli Emirati Arabi Uniti, guidò da Abu Dhabi fino al confine con l’Arabia Saudita e tentò di attraversarlo.
Il video, caricato su You Tube, ebbe 800 mila visualizzazioni e tremila commenti, divisi tra sostenitori e critici.
L’anno prima, Loujain al-Hatlhoul, con il marito accanto, l’attore saudita Fahd al-Butayri, si era filmata mentre tornava a casa a Riad, guidando.
Un gesto sovversivo in quella parte di mondo: il primo dicembre 2014 la donna venne arrestata per aver sfidato il divieto di guida nel regno.
Il caso era finito dinanzi a un tribunale militare in quanto rientrava sotto la nuova legge antiterrorismo, trattandosi di un fatto che danneggia la reputazione del Paese.
La giovane attivista passò 73 giorni in prigione e fu condannata al divieto di espatrio per diversi mesi.
Nel novembre 2015, dopo la concessione alle donne del diritto di voto, Loujain si candidò alle elezioni locali, ma il suo nome non è apparso nelle liste, nonostante l’ammissione ufficiale delle sua candidatura.
Lo stesso anno, Loujain al-Hatlhoul è stata inserita al terzo posto della classifica ‘Top 100 donne arabe più potenti’.
In realtà, la donna aveva rilanciato una battaglia cominciata dalle sue compatriote nel 1990, quando a decine si misero al volante per protesta, furono imprigionate per 24 ore, alcune di loro persero passaporto e lavoro.
Con altre attiviste del movimento “Women2Drive”, Loujain ha portato avanti la battaglia per il diritto di guida delle donne, con campagne di grande successo sui social.
La loro lotta si è conclusa con l’emanazione – il 26 settembre 2017 – di un decreto reale che stabiliva il rilascio delle prime patenti di guida femminili da giugno 2018.
L’Arabia Saudita è al 141mo posto su 149 per l’ultimo ‘Global Gender Gap Report’ del Forum economico mondiale.
Le donne vengono considerate eterne minorenni, pertanto sottoposte al controllo di un “guardiano”, un uomo della sua famiglia, che supervisiona tutti gli aspetti principali della vita e ha potere sulle decisioni più importanti come lavorare, studiare, sposarsi, divorziare.
Il 4 giugno 2017, Loujain è stata arrestata per la seconda volta, all’Aeroporto Internazionale di Dammam-Re Fahd, in Arabia Saudita.
La ragione per l’arresto non è stata chiara e non le è stato concesso di avere un avvocato e contattare la sua famiglia.
Quando Riyad annunciò la fine dell’anacronistico divieto di guida per le donne, Loujain ricevette una telefonata in cui le autorità le impedivano di commentare la notizia o parlarne sui social.
Per sfuggire al divieto si è trasferita negli Emirati Arabi Uniti, studiando per conseguire un master in sociologia all’Università di Abu Dhabi.
Un soggiorno interrotto quando la giovane donna è stata prelevata dai servizi di sicurezza – assieme al marito – e riportata a Riad, dove è stata incarcerata.
Da maggio 2018, non è mai più uscita dal carcere.
Secondo alcune fonti, il marito scarcerato, avrebbe divorziato dietro pressioni esercitate dalle autorità.
Tre mesi dopo l’arresto, è stata trasferita in un carcere a Gedda e finalmente i genitori sono riusciti a vederla.
“Tremava costantemente, non riusciva a stare seduta o a tenere qualcosa in mano. È stata picchiata, affogata con il waterboarding, sottoposta a scariche elettriche, minacciata di stupro e morte. Il tutto alla presenza di un consigliere reale” ha denunciato la sorella di Loujain.
A confermare le “disumane” condizioni carcerarie inflitte dalle autorità saudite alle militanti femministe detenute arbitrariamente è l’ultima inchiesta di Amnesty International, spingendo le istituzioni di alcuni Paesi occidentale a chiedere a Riyad “maggiore trasparenza” e di aprire i propri centri di detenzione a “ispezioni internazionali”.
Il rapporto denuncia la situazione “drammatica” di una decina di esponenti di spicco del movimento femminista nel regno, trasferite in prigione senza avere mai ricevuto la notifica formale di “alcun capo di imputazione”, senza aver avuto la possibilità di contattare un avvocato.
L’ondata di arresti condotta nel maggio 2018 è stata giustificata dalla Casa reale da “esigenze di sicurezza nazionale”.