Gabriella Ferri, cantante e icona di Roma, ha fatto del dialetto della capitale una prosa eterna. La sua carriera è stata una delle più ricche e variegate della musica italiana, benché molti ricordino soltanto la grande interprete di canzoni dialettali.
Talento, passione, originalità, conoscenza delle proprie radici, contaminazione e autentico anticonformismo, totalmente esente da qualsivoglia posa chic.
Il suo lascito rappresenta una fetta imprescindibile della recente cultura italiana e meriterebbe di venire ricordata più spesso.
È stata una delle prime donne in Italia a firmare i propri brani, che affiancava poi ai grandi classici della tradizione. Nella sua carriera ha registrato quindici album in studio e tantissimi singoli.
Gabriella nasce il 18 settembre 1942 a Roma, nel quartiere Testaccio. Diventa presto irrequieta, soprattutto a causa del rapporto col padre Vittorio – ambulante con ambizioni artistiche – che da un lato le apre le porte della musica, trasmettendole gran parte del repertorio tradizionale romano, dall’altro con i suoi modi tirannici la allontana involontariamente da casa.
Abbandonata la casa natia, lavora in un negozio nei pressi di Piazza del Popolo, dove nel 1963 conosce Luisa De Santis, figlia del regista Giuseppe, uno dei nomi di punta del neorealismo (Riso amaro). Fra le due scatta subito un’alchimia.
Un anno dopo decidono di andare a vivere a Milano, dove grazie alle conoscenze di De Santis trovano l’appoggio dei saloni intellettuali. Enzo Jannacci le farà esibire all’Intra’s Derby Club. Firmano un contratto per un disco e Mike Bongiorno, che le chiama per partecipare alla trasmissione “La fiera dei sogni”, dove cantano “La società dei magnaccioni”. È quello il primo contatto di Gabriella Ferri con il grande pubblico e la televisione.
Il sodalizio con Luisa non dura che un paio d’anni perché quest’ultima non reggeva emotivamente la carriera da musicista.
Il suo album di debutto, dal titolo Gabriella Ferri viene nel 1966.
È già evidente, seppur in forma ancora rustica, il gioco di contrasti che avrebbe reso celebre l’artista: sbalzi d’umore e il suo timbro particolare costituiscono uno stile di canto con pochi eguali nel mondo, sicuramente nessuno in Italia. Negli anni a venire saranno stati portati al parossismo e deformati in maschere grottesche.
Dopo aver girato Canada e Stati Uniti nell’estate del 1966, Gabriella Ferri rientra a Roma e inizia a frequentare il bar Rosati, dove conosce artisti come Vittorio Gassman e Nino Manfredi e un giovane Renzo Arbore, appena sbarcato nella capitale. Il futuro presentatore la fa appassionare al repertorio napoletano, che finirà con l’occupare un cospicuo spazio del suo canzoniere.
Sul finire dell’anno debutta al Bagaglino. È tramite questa esperienza che l’artista inizia a sviluppare il suo proverbiale piglio teatrale e clownesco.
All’inizio del 1969 partecipa a Sanremo con “Se tu ragazzo mio”, brano che mescola rhythm and blues, folk e arrangiamenti barocchi. A suonare l’armonica a bocca da dietro le quinte è un giovanissimo Stevie Wonder, che poi sale sul palco per interpretare la sua versione del brano, in uno stentatissimo italiano. Il brano viene eliminato subito e non entra in alcuna classifica di vendita.
Incide allora “Te regalo yo mis ojos”, versione spagnola di “Ti regalo gli occhi miei”, destinata al mercato sudamericano.
Il brano spopola, superando in pochi mesi il milione di copie vendute fra Argentina, Venezuela e Cile.
È un successo enorme, il 45 giri di un’artista italiana più venduto del 1969. Intraprende un tour in quei paesi, dove verrà accolta da un bagno di folla.
Tornata in Italia riprende a recitare al Bagaglino e registra il suo secondo album, anche questo omonimo. È con “Ciccio Formaggio”, primo confronto con il canzoniere classico napoletano, che il genio di Gabriella Ferri deflagra.
Non è facile per una cantante non napoletana confrontarsi con questo repertorio e uscirne a testa alta, ma Gabriella riesce anche in questa impresa. La pronuncia non è sempre perfetta, ma la personalità, la teatralità e la passione sono tali che la città partenopea si identificherà con trasporto nelle sue opere.
C’è un titolo che Gabriella Ferri è riuscita nel miracolo di rendere suo, “Dove sta Zazà”. Inizia lenta e straziante, poi si frantuma in una serie di scatti e stop improvvisi, mentre la voce sembra sfiorare il pianto e un secondo dopo diventa sporca come il catrame.
Dopo anni di comparse nelle più svariate trasmissioni televisive, la musica di Gabriella entra lentamente sotto pelle al pubblico italiano. La sua voce, ruggente come non mai e spiegata a pieni polmoni, impressiona il pubblico. L’album raggiunge in breve il secondo posto in classifica e la lancia nell’olimpo dello spettacolo italiano.
Nell’estate del 1973 il Bagaglino per la prima volta ottiene un programma in Rai. Si intitola “Dove sta Zazà” e va in onda il sabato. Lo spettacolo, diretto dallo storico regista Antonello Falqui, vede Gabriella Ferri come figura centrale, in veste di presentatrice e cantante, con il sostegno degli sketch comici di Pippo Franco, Enrico Montesano, Oreste Lionello e Pino Caruso, nonché ospiti come la Nuova Compagnia di Canto Popolare e Claudio Villa.
Finalmente il grande pubblico fruisce l’arte di Gabriella a trecentosessanta gradi, laddove fino a quel momento solo i romani avevano potuto apprezzarne le doti di teatrante e cabarettista.
L’elemento visivo è fondamentale, anche perché mette in risalto uno degli aspetti più importanti e sottovalutati del suo personaggio, l’ambiguità sessuale. Molti brani sono cantati al maschile, senza modificarne il testo, anche quando erano canzoni d’amore. Se si tratta di un’espediente comune ad altre cantanti folk del periodo, Gabriella è stata comunque l’unica che lo abbia messo in pratica, presentandosi spesso sul palco con trucco e abiti maschili ricordando la poetica dei film di Federico Fellini.
Non s’era mai sentita in Italia musica così sfacciata e dissacrante. Non solo per la scelta dei suoni e delle modalità espressive, ma anche per le parole a cui venne abbinata, che mettono in evidenza un vago senso di blasfemia.
L’11 settembre 1973 il generale Augusto Pinochet prende il potere in Cile e mette il bavaglio a tutte le manifestazioni culturali del paese. Cinque giorni dopo il cantautore Víctor Jara viene orrendamente trucidato, insieme a molti altri dissidenti. In questo riacceso interesse pubblico per le vicende dell’America latina, Gabriella Ferri affronta di nuovo il repertorio popolare di quei luoghi. Gli dedica il primo lato del nuovo album, “Remedios”.
Con “Grazie alla vita” Gabriella scopre le carte, traducendo in italiano l’inno di Violeta Parra, figura leggendaria della musica cilena, morta suicida nel 1967.
L’incantesimo si rompe nel 1975, dopo la morte di suo padre, Gabriella Ferri e cade in depressione. Si vocifera di un tentativo fallito di suicidio, per certo ci furono due date sold out al teatro Sistina annullate perché lei non si sentiva abbastanza in forze da affrontare il palco. Trasferitasi negli Stati Uniti, torna nel 1987, in quel periodo canta anche la sigla del programma “Biberon”, che segna il ritorno del Bagaglino, dopo quella partecipazione si ritira dalle scene.
Tornerà con un paio di lavori trascurabili soltanto a fine anni Novanta, e in televisione solo per qualche sporadica comparsa.
Il 3 aprile 2004 Gabriella Ferri cadeva dal balcone della casa in cui si era ritirata, a Corchiano. Nonostante i parenti abbiano tenuto a precisare che ultimamente il suo umore stesse migliorando e per quanto non siano stati ritrovati biglietti di addio, in molti è rimasta la convinzione che si sia suicidata.
Un volo forse causato dall’eccesso di antidepressivi, un giramento di testa e giù fino a terra. Finisce così una storia difficile fatta di successi, dolori, fantasmi e dipendenze.
È sepolta al cimitero del Verano a Roma. Sulla sua tomba è stata incisa una frase d’amore che le è stata dedicata dal marito Seva Borzak: “Di notte i tuoi occhi brillavano più forte della luce di giorno, il tuo amore riscaldava più del sole”.
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