Elbouma è una band femminista egiziana composta da due sorelle, Marina e Mariam Samir che combattono la misoginia attraverso la loro musica.
Il nome del gruppo significa civetta, uccello che in Egitto ha una valenza negativa, in quanto associato all’idea di sfortuna, ostilità. Vengono chiamate Bouma le donne quando sono imbronciate, si lamentano o quando ‘osano‘ essere femministe o rifiutare le avances.
Il progetto artistico, che, agli esordi si chiamava Bent El Masarwa, figlia degli egiziani, ha poi preso il nome di Elbouma per conferire un senso di orgoglio alla parola.
Le civette cacciano animali più grandi di loro. In quanto femministe, noi facciamo lo stesso, hanno dichiarato in un’intervista. Proviamo a combattere contro qualcosa che è molto più grande di noi, che ci circonda, che è radicato profondamente in tutto, incluse noi stesse.
Il loro primo disco, Bent El Masarwa, del 2014, parlava della condizione della donna egiziana e di tutte le difficoltà che si affrontano quotidianamente.
I media internazionali hanno cominciato a parlare di loro a partire dal 2017, quando è stata lanciata una campagna di crowdfunding per produrre il disco Mazghuna, fusione di indie sperimentale e musica folk tradizionale egiziana, che vira nell’elettronica e nell’ambient.
I testi sono fuoriusciti dal lavoro di condivisione delle esperienze di 34 donne durante tre workshop di narrazione svolti nella parte rurale dell’Egitto del nord, tra agosto 2016 e febbraio 2017.
Alla fine di ogni laboratorio, la band ha tenuto un concerto aperto a cui tutta la comunità era invitata e in cui facevano ascoltare le prime demo delle canzoni, invitando le donne partecipanti al workshop a cantare con loro. Per evitare ripercussioni, l’intero gruppo saliva sul palco indossando gli stessi abiti e le stesse maschere per nascondere i volti.
Questa potrebbe essere la prima volta che indosso una maschera visibile. Ma non sai quante migliaia di volte ho indossato una maschera che hai amato, mentre parlavamo, ci salutavamo o facevamo piani insieme.
Ognuna delle canzoni dell’album racconta una diversa esperienza con il patriarcato. Le partecipanti e le musiciste, nel lungo lavoro svolto insieme, si sono aiutate e sostenute a vicenda. Si parla di matrimoni forzati e spose bambine, di mutilazione genitale femminile, di razzismo e del rapporto madre e figlia. Le madri sono vittime e prigioniere del costume sociale e del marito, ma, al contempo, sono le guardie carcerarie delle loro figlie, sono la barca che trasporta un peso sull’acqua e l’ancora che lo tiene a riva. Pensavo di essere libera, canta un coro di donne mentre sembra che un microfono sia stato posizionato nel mezzo del circolo narrativo.
Ogni canzone è accompagnata da un’illustrazione in copertina dell’artista egiziana Alia Ali, otto opere d’arte che sono complementari alla musica.
Un progetto articolato frutto di un bel mix di sinergie che ha visto tante donne protagoniste nelle diverse fasi. Mariam Samir e Marina Samir, per la parte musicale e produttiva, un enorme contributo è stato apportato dal racconto delle donne e dalla loro facilitatrice, Israa Saleh, che ha partecipato anche alla narrazione e alla scrittura delle canzoni.
Insomma, un grande lavoro di squadra che partendo dall’autocoscienza vuole dare voce a donne inascoltate in una cultura intrisa di patriarcato e privazioni.
#unadonnalgiorno