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Doris Salcedo. L’arte come riparazione

Doris Salcedo

Compito importante per un’artista è cercare di dare alla società strumenti per elaborare il lutto. L’arte non può spiegare le cose, ma almeno può esporle.

Doris Salcedo, artista visiva e scultrice, ricerca ed esplora le tracce della violenza sociale e politica nella vita di persone vissute ai margini della società, in una sorta di topologia del lutto.

Narratrice di un disagio collettivo, con le sue installazioni di grande impatto estetico, dona forma al dolore, al trauma e alla perdita, attraverso l’utilizzo di oggetti comuni come mobili in legno, vestiti, cemento, erba e petali di rosa.

Riflettendo sulla condizione umana segnata da guerra, migrazione, sfide economiche e perdite personali, la sua pratica proviene da un profondo impegno con filosofia, letteratura e poesia.

Nata nel 1958 a Bogotà, in Colombia, ha studiato all’Universidad Jorge Tadeo Lozano per poi ottenere il Master in Belle Arti alla New York University.

Dal 1988 ha iniziato a visitare villaggi abbandonati, luoghi di omicidi e fosse comuni, intervistando parenti di persone fatte sparire per motivi politici o criminali.

Per anni ha tenuto archivi sui campi di concentramento, sia storici che più contemporanei, evidenziando come, nonostante le differenze storiche e geografiche, si assomiglino tutti.

L’installazione Atrabiliarios (1992-2004) è stata sviluppata in risposta alle persone fatte sparire e alle insopportabili condizioni che le donne hanno dovuto sopportare durante la loro prigionia e scomparsa. Composta da una serie di piccole nicchie incastonate nel muro, ciascuna ospita paia o singole scarpe, per lo più da donna, visibili dietro pelli di animali traslucide, che sono state suturate con filo chirurgico.

Nella serie La Casa Viuda, affronta il tema dello sfollamento forzato delle donne colombiane vittime della guerra civile in cerca di sicurezza dove frammenti di mobili sono forzatamente uniti in configurazioni interbloccate talvolta abbelliti con abiti usati o giocattoli.

I suoi progetti pubblici su larga scala sono formulati come un’istanza di lutto collettivo. Ambientati in spazi civici, propongono un’opportunità per l’espressione della perdita e chiedono la responsabilità condivisa del ricordo.

La sua serie ventennale Untitled, che affronta il genocidio di un partito politico, comprende sculture composte da armadi, cassettiere, letti e sedie in legno uniti i cui spazi negativi sono stati riempiti con cemento colato. Trasformate in inquietanti assemblaggi dislocati, le sue opere parlano di traumi, sepolture e gravi interruzioni che la guerra impone alle normali faccende domestiche.

Nel 2003 ha partecipato alla Biennale di Istanbul creando la celebre installazione fatta con 1.550 sedie posizionate tra due palazzi. Un monumento alla memoria delle vittime della violenza, in cui ogni sedia rappresentava una persona. Un’enorme fossa comune nobilitata da un oggetto semplice e universale come la sedia.

Nel 2007 la Tate Modern le ha commissionato un’opera per la Turbine Hall. Ha così prodotto Shibboleth una crepa lunga 167 metri che rappresenta i confini, la sofferenza delle persone immigrate, la segregazione, l’odio razziale.

Nel 2012 per il MAXXI di Roma ha creato Plegaria Muda, installazione composta da tavoli di legno sovrapposti sulle cui superfici si intravedono sottilissimi fili d’erba, chiaro riferimento a un cimitero, dedicata alle vittime delle stragi avvenute in Colombia a partire dagli anni Novanta, ma anche ai sobborghi di Los Angeles e, più in generale, alla sofferenza umana.

Nel 2016, dopo un plebiscito in cui si è votato contro gli accordi di pace che avrebbero posto fine al conflitto durato decenni, in un’azione collettiva, ha cucito duemila pezzi di stoffa bianca, ognuno dei quali mostrava il nome di una vittima scritto in cenere, creando un’enorme tela, Sumando Ausencias (Aggiungere assenze), che ha ricoperto l’intera piazza Bolívar di Bogotà.

L’installazione Uprooted, creata per la Biennale di Sharjah del 2023, affronta la natura sempre più inabitabile del mondo, gli effetti differenziali del cambiamento climatico e la migrazione forzata ad esso correlata. Presenta oltre 800 alberi morti accuratamente posizionati per dare forma a una casa archetipica, senza porte o finestre, un edificio di pura esteriorità che non offre alcuna possibilità di riparo.

Doris Salcedo indaga il lato oscuro della globalizzazione, creando una forma di poesia spaziale, al contempo elegiaca ed epica, comune e monumentale, generata per evocare emozioni intense in grado di elevare la consapevolezza, affinché il dolore e la sofferenza umana che acutamente percepisce nel mondo, non siano vani.

L’emozione estetica è politica e l’arte è il terreno sul quale il personale e l’intimo possono incontrare il collettivo e il pubblico.

Insegnante all’Universidad Nacional de Colombia e insignita con diversi importanti riconoscimenti, le sue opere sono presenti nelle maggiori istituzioni museali internazionali.

 

 

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