“Il nostro obiettivo è indicare una nuova strada per gli affari, che preveda un senso di giustizia verso chi è povero, e non il raggiungimento del massimo profitto“.
Leila Janah, detta l’imprenditrice dei poveri, è morta a 37 anni per un raro cancro.
Aveva fatto della sua vita una missione per cambiare le sorti del mondo, seguendo un principio: non fornire aiuti materiali ai poveri, ma dare loro un lavoro.
Era americana di origine indiana, laureata in matematica e scienze.
Durante l’università, in estate era in Ghana, per un programma di insegnamento di inglese per bambini non vedenti, dove aveva anche appreso il sistema Braille.
Il contatto continuo con le aree più povere del mondo finì per ispirarle un progetto per portare sollievo al maggior numero di persone: dopo aver lavorato a una società di consulenza di New York e alla Banca Mondiale, decise di passare all’azione in prima persona.
Nel 2008, fonda un’azienda, Samasource, dal sanscrito “Sama” che vuol dire “eguale”, assumendo persone in Kenya, facendole lavorare nel campo digitale, per fornire idee, dati, progetti e strumenti poi utilizzati nei campi più vari, dai videogiochi alla meccanica per auto.
Con l’azienda Lxmi, ha assunto, nel 2015, in Uganda, Benin e India altre migliaia di persone, impiegandole nel campo della produzione di creme per uso cosmetico.
Alla fine tra Samasource e Lxmi, i dipendenti hanno superato quota 11 mila, la metà dei quali sono donne.
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