Fabrizia Ramondino è stata un’eclettica scrittrice italiana.
I suoi saggi trattano problemi sociali e politici, dalla condizione dei disoccupati napoletani all’esperienza triestina nell’approccio con il disagio mentale secondo il metodo ispirato da Franco Basaglia, fino alla lotta di liberazione del popolo Saharawi.
Nata a Napoli il 31 agosto 1936 è la primogenita di Pia Mosca e Ferruccio, orientalista, interprete in Cina e futuro console a Maiorca, dove si trasferiranno per sette anni, pochi mesi dopo la sua nascita. In seguito all’armistizio Badoglio, lasciano l’isola, il padre viene arrestato dagli inglesi, mentre la famiglia torna a Napoli e trova rifugio a Massa Lubrense, nella penisola sorrentina. Dopo la guerra continueranno a spostarsi per l’Europa. Si laurea in francese all’Istituto Orientale di Napoli. Poi andrà a vivere in Francia e in Germania.
Torna a Napoli nel 1960 dove insegna, lavora in un asilo sperimentale per il recupero dell’infanzia dei vicoli. Ha sempre privilegiato il lavoro con i bambini più bisognosi in cui riconosce lo sguardo e lo spirito di avventura della sua infanzia. Grazie a loro apprende la capacità di creare meraviglie con le parole e l’importanza dei sogni, vissuti come continue trasformazioni in cui odori, sapori e dettagli costituiscono la piccola storia di ognuno e ognuna. Fa volontariato nei consultori, partecipa alla fondazione del Centro di coordinamento campano e dell’Associazione per il risveglio di Napoli.
Dal 1968 al 1977 prende parte alle lotte politiche e sociali, aderisce al movimento della Nuova Sinistra, svolge un’inchiesta che diventa un libro: Napoli. I disoccupati organizzati, commissionatole da Goffredo Fofi.
L’esordio come scrittrice avviene nel 1981 con Althénopis (Premio Napoli 1981 e Premio Lombardi-Satriani, 1984), promosso da Natalia Ginzburg e Elsa Morante. Il romanzo autobiografico la impone all’attenzione della critica, è un esempio di antiromanzo, stile elencativo col registro della distanza, restituita attraverso la memoria che recupera immagini della sua vita dai sette anni alla prima adolescenza, filtrate attraverso cose, luoghi, interni.
Nel 1985, sua figlia Livia viene presa alla scuola di danza diretta da Pina Bausch a Essen. Dai numerosi viaggi in Germania prende vita il Taccuino tedesco del 1987, in cui registra i cambiamenti della società tedesca. In seguito alla caduta del Muro ripensa criticamente al comunismo.
La sua scrittura spazia dal racconti al reportage, dall’autobiografia alla poesia, dal romanzo alla sceneggiatura: affronta i temi del disagio psichico, accompagna la troupe cinematografica di Mario Martone e Cesare Accetta nel deserto del Sahara per girare un documentario e scrivere un testo a sostegno del popolo Saharawi.
Classico, teatrale e fantastico, il romanzo Un giorno e mezzo raffigura un preciso spaccato generazionale e politico – le mense separate della galassia anarchica e socialista dopo il settembre 1969 – e lo fa da una prospettiva psicologica che insiste sullo sdoppiamento maschile/femminile.
La sua opera e la sua persona sono segnate da una forte asimmetria. Al gruppo preferisce le relazioni a due e mantiene una divisione ostinata tra corpo e mente, osservandosi vivere dall’esterno.
Negli anni ’90 si trasferisce a Itri, vicino Gaeta, cura con Mario Martone la sceneggiatura del suo film Morte di un matematico napoletano e l’allestimento di Terremoto con madre e figlia. Per vincere una grave depressione, va con il regista nel deserto algerino raccontato in Polisario.
La sua scrittura è fatta di gioco e di ricerca, che ella stessa paragona al puzzle: andare indietro e riannodare i ricordi dona vita a una costruzione romanzesca basata sullo spazio, dove non si svolge una trama, ma tante trame di ricordi veri o presunti, di racconti, di esperienze magiche.
I suoi libri attraversano i confini di genere, muovendosi tra romanzo e saggio, intreccio e meditazione, pensiero e natura. La scrittura coincide con il suo corpo, contenitore fragile della mia dismisura, per accogliere ritratti e storie che illuminano una realtà al tempo stesso concreta e fantastica.
Passaggio a Trieste del 2000, è un romanzo-taccuino in cui durante l’estate del 1998, a vent’anni dalla legge Basaglia, accoglie le voci del Centro donna salute mentale di Trieste. Un dolore mai pienamente sopito, che l’autrice ha provato a sfidare con la psicoanalisi prima e con l’alcol, poi.
Nel 2004 pubblica una raccolta di poesie, Per un sentiero chiaro, che vince la prima edizione del Premio internazionale di poesia Pier Paolo Pasolini. L’ultimo libro, il romanzo La via, è uscito il giorno dopo la sua morte improvvisa.
È stata colta da un malore dopo una nuotata in mare vicino casa a Itri, il 23 giugno 2008.
Forse è stato tutto troppo, tante vite in una sola, rivela nell’ultima intervista. Si nasce, si soffre, si muore: questa la verità che emerge dall’opera di una scrittrice riflessa che ha scelto di dividersi per non restare sola e restituire i morti ai vivi attraverso numerosi frammenti di idillio.
Leggere oggi Fabrizia Ramondino significa scoprire l’audacia di un’esistenza trascorsa in una lingua e un mondo nuovi e inventati dove utopia faccia rima con poesia.
#unadonnalgiorno