Viviamo “tempi di urgenze che hanno bisogno di storie”. “Pensare, pensare dobbiamo” per “reagire alla disperazione” e, soprattutto, “sopravvivere sulla terra”.
La soluzione? “Generate parentele, non bambini”.
Donna Haraway, filosofa della scienza, è tra le principali esponenti del pensiero ecologico e femminista contemporaneo, esamina la nostra condizione di umani, specie devastatrice che ancora non ha imparato a convivere con il resto del vivente senza danneggiarlo.
È pensatrice eclettica, tra le figure intellettuali più rilevanti del pensiero anglosassone. Insegna teoria femminista, studi femministi e cultura e storia della scienza e della tecnologia nel dipartimento di Storia della Coscienza all’Università della California a Santa Cruz.
Non possono bastare le piazze piene dei Fridays for future o i tentativi, più o meno efficaci, delle classi politiche di farsi portavoce di riforme tardive per la tutela dell’ambiente. Servono riflessioni profonde che aiutino a ripensare il modello e a farlo in modo radicale.
Donna Haraway è una voce preziosa, troppo più avanti di qualsiasi dibattito italiano, indica una strada che, se non può salvare l’umanità, almeno può darle un nuovo senso. Non può esserci solo la consapevolezza che il mondo è destinato a finire, condannato dai suoi stessi abitanti all’esaurimento, è necessario che l’essere umano smetta di pensarsi come unico centro di tutto.
La soluzione per un pianeta che, secondo le stime, arriverà a 10 miliardi di abitanti entro la fine del secolo è creare relazioni, tra umani, ma anche tra le specie tutte, per riuscire a sopravvivere.
E se si vuole procreare che sia almeno una scelta collettiva e consapevole.
Il suo esercizio del pensiero richiede assoluta libertà e abbatte le barriere, va oltre genere, razza, sesso, nazione, classe e morfologia.
“Dobbiamo”, scrive, “con-fare, con-divenire, con-creare”. Per Donna Haraway è un approdo naturale.
La filosofa è l’autrice del celebre “Manifesto cyborg”, testo che la consacra come teorica del cyborgfemminismo: dove il cyborg, inteso come uomo e macchina insieme, permette di superare quelle coppie di concetti che hanno riguardato tutta la cultura occidentale, a partire da quello uomo\donna.
Si spinge a immaginare un’epoca che può prendere il posto dell’Antropocene, l’epoca in cui viviamo e i cui cambiamenti, per definizione, sono da attribuire agli esseri umani.
Un’epoca di urgenze multi specie tra cui quella umana: un’epoca di grandi estinzioni e morti di massa, di disastri incessanti le cui imprevedibili specificità vengono stupidamente scambiate per l’inconoscibilità stessa; un’epoca in cui ci si rifiuta di conoscere e coltivare la propria responso-abilità in cui ci si rifiuta di essere presenti nella e alla catastrofe che avanza, in cui si tende a distogliere lo sguardo in un modo che non ha precedenti.
L’Antropocene per Donna Haraway introduce delle discontinuità drastiche; quello che verrà dopo non sarà come quello che è venuto prima. È una condizione difficile da accettare e comprendere, ma che offre innumerevoli possibilità.
E lo “Chtuhlucene”, da sym (insieme) e khthon (mondo sotterraneo), è quello che potrebbe venire dopo, se gli esseri umani riescono a scendere dal loro piedistallo e imparano a pensarsi nel mondo.
È una dimensione che imbriglia una miriade di temporalità e spazialità diverse e una miriade di entità in assemblaggio.
Per vivere e morire bene da creature mortali, nello Chthulucene, è necessario allearsi con le altre creature al fine di ricostruire luoghi di rifugio; solo così sarà possibile ottenere un recupero e una ricomposizione parziale e solida della Terra in termini biologici-culturali-politici-tecnologici.
Lo slogan di questa nuova epoca e il principio intorno al quale tutto ruota è “generate parentele, non bambini”.
“È tempo che le femministe prendano le redini dell’immaginazione, della teoria e dell’azione per sciogliere ogni vincolo tra genealogia e parentela, e tra parentela e specie”.
Il richiamo è quanto di più umano si possa immaginare: “Generare parentele – making kin – e esercitare la premura verso l’altro – making kind – (intesi come categoria, cura, parentele senza legami di sangue, parentele altre e molte altre ripercussioni) sono processi che ampliano l’immaginazione e possono cambiare la storia”.
In questo modo, gli esseri umani potranno sperare di tornare “a essere due o tre miliardi” e solo così, riducendo il numero di abitanti sulla terra e rafforzando le relazioni tra gli esseri che sopravvivono, sarà aumentato “il benessere di un’umanità diversificata”.
Per noi, ancora bloccati nell’Antropocene, e con gli occhi pieni di “estinzioni di massa” è molto difficile da pensare. Donna Haraway pensa a un mondo dove la natalità è una scelta collettiva, che viene presa insieme proprio perché si conoscono le conseguenze alle quali potrà condurre. È possibile decidere di non procreare completamente e di coltivare un sentimento fondamentale: “l’amicizia”.
Vuole dare un futuro a un mondo che così com’è non ce l’ha. “Dobbiamo unire le forze e condividere tutte le idee che ci vengono in mente per coltivare le epoche a venire in modo da ristabilire dei luoghi di rifugio”.
O meglio, “pensare, dobbiamo pensare”.
Le donne devono assumersi la responsabilità di relazionarsi in prima persona con la scienza, rifiutando la metafisica antiscientifica e la demonizzazione della tecnologia perché questa offre il miglioramento del vissuto quotidiano; gli strumenti per stravolgere le strutture di dominio esistenti; il superamento dei dualismi nei quali ci hanno costrette, come donne, ad interpretare il reale; la possibilità, per le diverse marginalità sociali, di affermare la pluralità dell’esistente attraverso la pluralità dell’espressione.
Lo sviluppo esponenziale dell’alta tecnologia e la sua presenza sempre più diffusa e determinante nelle strutture della società occidentale attuale ha portato alla crisi dell’immagine monolitica del soggetto detentore del potere (uomo, eterosessuale, borghese, bianco). In questa frammentazione delle prospettive le donne devono senz’altro conquistare, mantenere ed ampliare (a seconda della loro specifica collocazione individuale e collettiva) il loro spazio di conoscenza e uso di tecnologia come strumento di liberazione.
Il desiderio di maternità non è individualmente concepito dalle donne, ma è indotto dalla società occidentale dove ogni nuovo nato è un potenziale nuovo consumatore.
Poiché la struttura sociale attuale è basata sulla famiglia biologica mononucleare, le escluse dall’uso delle biotecnologie sono le donne sole, anziane, lesbiche, categorie escluse anche da qualsiasi ruolo di potere.
In questo modo le donne si svincolano da un ruolo storico di genere che ha strutturato la loro stessa identità nel corso dei secoli, sciogliendo il binomio finora indissolubile donna/madre.
Donna Haraway è nata in Colorado da una famiglia cattolica di origine irlandese. Si laurea in biologia e, dopo la seconda guerra mondiale, rendendosi conto dei risvolti politici della militarizzazione della scienza, inizia a impegnarsi attivamente per i diritti civili e contro la guerra in Vietnam.
Tiene il suo primo corso su donne e scienza nel 1971, all’Università di Honolulu. Si trasferisce all’Università di Baltimora ed entra in un gruppo femminista socialista cominciando a sviluppare il suo pensiero antirazzista, non sessista e critico delle applicazioni di elettronica, chimica e biologia dell’industria bellica. Nel 1980 si trasferisce all’Università della California a Santa Cruz per insegnare teoria femminista ed inizia a lavorare sul cyborg e, come da lei stessa indicato, “su altre ibridizzazioni e fusioni tra l’organico, l’umano e il tecnico, e il modo in cui il materiale, il letterale e il tropico implodono.”
La sua figura del cyborg, da invenzione fantascientifica diventa metafora della condizione umana.
Tutti siamo in qualche modo dei cyborg. L’uso di protesi, lenti a contatto, by-pass sono solo un esempio di come la scienza sia penetrata nel quotidiano e abbia trasformato la vita dell’umano moderno. La tecnologia ha influenzato la concezione del corpo, che diventa un territorio di sperimentazione, di manipolazione, smettendo dunque di essere inalterato e intoccabile.
#unadonnalgiorno