Marta Fana, ricercatrice in economia e autrice di saggi sulla precarietà e il lavoro, scrive una lettera al Presidente di Confindustria Carlo Bonomi che ha parlato di una “stagione dei doveri e sacrifici per tutti”.
Caro Presidente Bonomi,
le sue parole riportate nell’intervista del 4 maggio al Corriere della Sera sono un insulto ai lavoratori che in questi due mesi hanno garantito a noi cittadini di sopravvivere, nonostante tutto. Non sono le prime e sappiamo che non saranno neppure le ultime. Dalla pretesa di non bloccare alcuna attività perché la produzione prima di tutto, al tacciare di irresponsabilità i lavoratori che hanno scelto di scioperare quando erano costretti a lavorare senza protezioni, fino a chiedere che si deroghi ai contratti collettivi così da darvi mandato di spremerci un po’ di più.
Le sue parole sono un insulto ai tanti che sono rimasti a casa senza un lavoro perché assunti con contratti a termine e oggi non rinnovati, milioni di lavoratori che avete usato uno dopo l’altro, con rinnovi trimestrali finché vi son serviti, così come i collaboratori assunti con forme contrattuali per le quali non dovevate neppure versare i contributi sociali.
Perché per voi i lavoratori sono questo: oggetti ad uso e consumo della vostra accumulazione. Io non l’ho sentita fare appelli affinché le aziende non usassero gli appalti e le esternalizzazioni per pagare meno il lavoro e aumentare lo sfruttamento. Non ho letto nessuna levata di scudi contro il caporalato diffuso in tutti i settori.
Nel frattempo abbiamo visto la povertà lavorativa aumentare di pari passo ai vostri profitti.
E allora no, non può parlare per tutti.
Le sue parole appaiono quanto mai irresponsabili se rivolte a chi in questi due mesi ha continuato a lavorare con turni massacranti dieci, dodici ore al giorno, come nei magazzini, o nei campi, negli ospedali, nei supermercati, ma anche a casa, sopportando tutti i costi di una riorganizzazione profonda dei modi e tempi di lavoro.
Eppure lei si permette di dire che sta iniziando la «stagione dei doveri e sacrifici per tutti», sapendo benissimo che qui i sacrifici li abbiamo sempre fatti noi. Perché quando per voi le cose non si mettono bene, avete a disposizione la cassa integrazione che è pagata dai lavoratori e dallo Stato, su cui si scarica anche il vostro rischio di impresa.
E allora a che servite? Non è una domanda banale: il vostro mercato non funziona, avete e avrete sempre bisogno dei nostri soldi e dello Stato, non vi assumete neppure il rischio della vostra attività, continuate a pretendere la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti.
Io provo imbarazzo per lei leggendo parole come «Quando sento chiedere aumenti contrattuali, per esempio nell’alimentare, significa che a molti la situazione non è chiara».
Noi sappiamo che in agricoltura le condizioni di lavoro rasentano la schiavitù in troppe province, dove lavoratori a cui non è riconosciuto alcun diritto perché mantenuti nell’irregolarità guadagnano addirittura 4,7 euro lordi l’ora, oppure 7,5 come nel foggiano. Lungo la filiera c’è di tutto, dal settore delle trasformazioni balzato alla cronaca per le grandi mobilitazioni di chi si opponeva al vostro sfruttamento a chi ancora oggi nei magazzini e nelle fabbriche lavora ad oltranza. Più della metà di questi lavoratori hanno un salario lordo orario di appena 12 euro, il 10% più povero non arriva agli 8 all’ora.
Secondo il contratto nazionale un operaio di quarto livello, quindi specializzato, guadagna appena 11,23 euro lordi l’ora, uno non specializzato arriva appena a 9,35. Lordi. Questa è la realtà a cui bisogna aggiungere il 19,1% dei lavoratori del trasporto e del magazzinaggio che non guadagnano neppure 9 euro lordi l’ora.
E non contiamo gli straordinari non pagati, i part-time involontari, facciamo per un secondo finta che sia tutto in regola. Ma sappiamo non lo è. Mentre i fatturati di questi settori aumentano, non ho sentito nessuno di voi dire che bisognava aumentare questi salari che sono da fame, come forma innanzitutto di rispetto per i lavoratori.
Al contrario ho sentito dire che bisogna far lavorare chi percepisce gli ammortizzatori sociali o il reddito di cittadinanza. Abbiamo sentito dire che bisognerebbe reintrodurre i voucher, uno strumento che non garantisce neppure la copertura sanitaria. Come mai non abbiamo letto al vostra contrarietà a queste proposte incivili?
La via è tracciata, tornerete a ricattarci a chiederci di scegliere tra occupazione e salari e diritti, quella formula che ha funzionato non per generare crescita, ma per destrutturare ulteriormente la nostra struttura produttiva e aumentare la quota di lavoratori poveri e ricattabili.
Ma non pago, persevera: «Quello che mi preoccupa e mi indigna è che si giochi ancora a dare la responsabilità alle imprese di un eventuale aumento dei contagi. Il Codice civile mette in capo all’impresa la salute e sicurezza dei lavoratori».
Vorrei ricordarle che siamo un paese dove in tempi normali, senza pandemia, muoiono sui luoghi di lavoro circa 3 persone al giorno, una strage. Eppure non vi ho visti chiedere ai vostri colleghi di fare di più e meglio per proteggere la vita dei lavoratori. Quante delle 192 mila imprese che durante al fase 1 sono rimaste aperte con l’autocertificazione sono state controllate?
Viene il dubbio sul vostro senso di responsabilità leggendo dei suoi colleghi attaccare chi chiede di aumentare il numero di ispettori del lavoro in modo da verificare e garantire migliori condizioni per tutti.
Se siete in regola, non c’è motivo di scagliarvi contro le ispezioni. O forse no.
Non a caso, quello che la preoccupa è che i lavoratori possano denunciarvi in caso di malattia e contagio. Come ci si sente a dover dimostrare di non essere colpevole? Perché noi lavoratori lo sappiamo bene cosa significa dover lottare per vedersi riconoscere i diritti minimi, non i vostri privilegi.
Se i sacrifici sono per tutti, date il buon esempio: restituite tutti i profitti sottratti allo Stato e portati nei paradisi fiscali, chiedete che venga ristabilita l’aliquota del 27% sull’Ires e che sia progressiva così un piccolo imprenditore non è chiamato a contribuire quanto uno grande.
Riducetevi i compensi in maniera strutturale a voi stessi a ai vostri manager. Non in modo caritatevole e a chi ha più buon cuore, in modo strutturale. Imponete che nessun manager possa guadagnare più di 3 volte l’operaio meno pagato.
Sappiamo che non lo farete, perché la realtà è un’altra da quella che raccontate. Lei rappresenta un pezzo di tessuto imprenditoriale, gioca la sua partita, quella del profitto, quella di chi per rimanere a galla ha bisogno di sfruttare i lavoratori. Non si scomodi a parlare per tutti perché lei rappresenta una parte della società, di sicuro non i lavoratori e le loro famiglie.
Marta Fana, siciliana, classe 1985. Con l’ostinazione di studiare l’economia come scienza sociale, ha un dottorato di ricerca in Economia allo IEP SciencesPo Parigi. Scrive di lavoro, politica economica e politiche pubbliche. È autrice di Non è lavoro è sfruttamento (Laterza, 2017). Scrive anche su Il Fatto Quotidiano e Internazionale. Si è spesso confrontata i vari talk televisivi. Celebre fu il suo scontro con l’ex ministro del Lavoro Giuliano Poletti, in occasione della gaffe, poi corretta, sui giovani che andando all’estero “si tolgono dai piedi”.
La battaglia più importante che ha intrapreso è quella dei salari equi per tutte e tutti.
Per porre fine allo sfruttamento, si era trasferita in Francia, a osservare il problema e ricercarne una soluzione.
Famosa anche la sua querelle con Oscar Farinetti di Eataly. Una pagina della televisione italiana che ha messo a nudo le contraddizioni dei nostri giorni. E dietro il duello truccato e l’affabulazione dell’imprenditore simpatico e alla mano, ci ha fatto vedere l’autoritarismo piccato del ceto padronale nell’epoca delle camicie bianche.
Marta Fana ha messo a nudo il re e gli ha tolto la maschera e il sorriso.
#unadonnalgiorno