Trisha Brown ballerina e coreografa statunitense, ha aperto le porte a un nuovo modo di pensare e agire il movimento.
È stata la prima a portare la danza in luoghi non convenzionali, a far ballare in jeans, scalzi, a usare la musica (ma spesso anche a non usarla) in modo libero, a intrecciare il lavoro con altre arti a cominciare da quelle visive, a giocare con l’improvvisazione.
Dagli anni Settanta al 2011 ha creato oltre cento coreografie e sei opere liriche. È stata la prima a creare performance su superfici urbane, trasponendo la danza dal piano orizzontale a quello verticale.
In cinquant’anni di carriera la sua arte, pur sottoposta a un ininterrotto processo d’invenzione e reinvenzione, ha presentato delle coordinate fondamentali che hanno caratterizzarono la sua poetica: la ricerca di un nuovo corpo danzante, la raffinatezza del vocabolario gestuale, l’improvvisazione come modalità creativa, la continua esplorazione dello spazio, l’interdisciplinarità e la riflessione sul rapporto tra musica e danza.
Instancabile sperimentatrice vicina all’élite artistica newyorkese, ha vissuto gli anni dell’esplosione delle avanguardie e assistito all’evoluzione del concetto di musica negli happening di John Cage, compositore e teorico musicale che è stato un guru di quella generazione e una delle personalità più rilevanti e significative dell’intero Novecento.
È stata anche un’importante visual artist, le sue opere sono state esposte in mostre, gallerie e musei di tutto il mondo tra cui la Biennale di Venezia, il Drawing Center di Philadelphia, il Walker Art Center, il Musée d’art Contemporain de Lyon e il Museum of Modern Art.
Nata ad Aberdeen, nello stato di Washington il 25 novembre del 1936, si era diplomata in danza nel 1958. Attratta dagli studi sull’improvvisazione si era trasferita a New York nel 1961 dove ha fondato il collettivo del Judson Dance Theater, identificato come l’origine della danza postmoderna.
Ha collaborato con il movimento artistico Fluxus, network internazionale d’arte, musica e design che mescolava diversi media e discipline artistiche e studiato le tecniche di educazione somatica, in particolare la Kinetic Awareness e la Klein technique, che hanno accompagnato il suo lavoro sul corpo segnandone la qualità di movimento.
Nel 1970 ha fondato la sua compagnia che, fino al 1979, era composta da sole donne.
Concentrata sul rapporto del corpo con la gravità e sull’interazione con contesti urbani, allenava a una astrattezza e leggerezza quasi da sogno, come a vincere la gravità. E così ballerine e ballerini, appesi a grandi funi, hanno scalato pareti e ballato sui tetti dei palazzi di New York.
Nel 1979 ha creato Glacial Decoy, il suo primo lavoro ideato per il teatro.
Del 1983 è il capolavoro Set e Reset con le musiche di Laurie Anderson e disegni di Robert Rauschenberg, considerato il manifesto della danza postmoderna.
Nel 1987 ha vinto il Laurence Olivier Award per l’eccellenza nella danza.
Nel suo percorso di ricerca ha sperimentato diversi stili che alternavano momenti di totale controllo ad altri di abbandono al libero flusso delle emozioni.
Alla fine degli anni ottanta ha approfondito il tema del gender e si è cimentata nella produzione lirica, ha curato le coreografie della Carmen diretta da Lina Wertmüller al Teatro San Carlo di Napoli e firmato diverse regie di opere classiche.
Negli ultimi anni ha utilizzato le nuove tecnologie collaborando con il visual artist e robotics designer Kenjiro Okazaki.
Si è spenta il 18 marzo 2017 a Sant’Antonio, in Texas, seguendo di qualche mese la dipartita del marito, l’artista Burt Barr con cui aveva spesso collaborato.
La sua compagnia, oltre a preservare e tenere viva la memoria del suo repertorio, ha avviato il progetto In Plain Site, con cui ha riadattato le sue opere principali, frammentandole e proponendone selezioni in modalità site-specific.
Una strategia di resistenza fedele all’atteggiamento pragmatico, aperto e proiettato nel futuro che ha caratterizzato l’intero percorso di questa grande icona della danza.