Judy Chicago è una poliedrica artista statunitense, pioniera del movimento artistico femminista sin dagli anni ’60.
Nominata tra le 100 persone più influenti del 2018 per la rivista Time è stata inserita nella National Women’s Hall of Fame nel 2021.
Citata in centinaia di pubblicazioni internazionali, col suo lavoro ha influenzato la comunità artistica mondiale.
È nota per le sue grandi installazioni che celebrano il molteplice ruolo delle donne nella storia e nella cultura.
Negli anni ’70 ha ideato il primo programma di arte femminista negli Stati Uniti alla California State University di Fresno che ha agito da catalizzatore per l’arte femminista e l’educazione artistica.
La sua ricerca abbraccia pittura, arti tessili, scultura e installazioni. Ha esplorato le complessità del parto, le possibilità della scultura minimalista e la relazione tra il paesaggio e il corpo femminile.
Il suo lavoro più famoso è l’installazione The Dinner Party realizzata in cinque anni, dal 1974 al 1979, grazie all’aiuto di 400 donne che si sono offerte di contribuire a quella che viene considerata la prima opera d’arte femminista epica che è in esposizione permanente al Brooklyn Museum, e che celebra i successi di 39 donne nel corso della storia di tutti i tempi.
Le sue opere, esposte in tutto il mondo, appartengono a collezioni celebri come quelle del British Museum, Tate Gallery, Metropolitan Museum of Art, Los Angeles County Museum of Art, Art Institute of Chicago e la National Gallery of Art di Washington.
È nata col nome di Judith Sylvia Cohen, il 20 luglio 1939 a Chicago da Arthur e May Cohen. Suo padre, proveniente da una stirpe di rabbini da ventitré generazioni, rompendo la sua tradizione familiare, è stato un marxista militante nel Partito Comunista Americano che l’ha influenzata sin da bambina con le sue opinioni liberali nei confronti delle donne e il sostegno ai diritti dei lavoratori. Durante il maccartismo l’uomo fu indagato e perse il lavoro, causando non pochi problemi in famiglia. È morto nel 1953.
Judith aveva cinque anni quando ha iniziato a studiare arte e deciso quale sarebbe stata la sua strada. Ha frequentato l’art Institute di Chicago e poi l’UCLA, grazie a una borsa di studio. Si è laureata in Belle Arti nel 1962 e conseguito il master due anni dopo.
Nel frattempo si era sposata con Jerry Gerowitz con cui aveva vissuto nel Village a New York e che l’ha lasciata vedova e devastata a causa di un incidente d’auto nel 1963.
I suoi primi lavori, nella scuola di specializzazione, furono una serie astratta, in cui organi sessuali maschili e femminili erano facilmente riconoscibili, chiamati Bigamy che rappresentavano la morte dell’amato coniuge e che scandalizzarono i suoi insegnanti.
La sua prima mostra risale al 1965 a Los Angeles. Quattro anni dopo esponeva al Pasadena Art Museum esplorando la propria condizione di donna e ricevendo le prime importanti segnalazioni da parte della critica.
In quegli anni ha deciso di cambiare nome prendendo spunto da un gallerista che la chiamava Judy Chicago a causa del suo forte accento. Il cambio di nome, rappresentava la sua liberazione da un’identità imposta dalla società. venne annunciato con uno striscione esposto per una sua mostra che recitava: “Judy Gerowitz si spoglia di tutti i nomi che le sono stati imposti attraverso il dominio sociale maschile e sceglie il proprio nome, Judy Chicago“. Un annuncio pubblicitario con la stessa frase venne inserito nel numero di ottobre 1970 di Artforum.
Nello stesso anno, ha iniziato a insegnare a tempo pieno al Fresno State College, progettando una classe tutta femminile per insegnare alle donne le competenze necessarie per esprimere la propria prospettiva di genere nell’arte.
Nella primavera del 1971 ha istituito il primo primo programma di arte femminista nella storia degli Stati Uniti. Era composto da 15 aspiranti artiste che si riunivano in uno studio fuori dal campus dove tenevano gruppi di lettura e di discussione sulle loro esperienze di vita, sperimentando l’autocoscienza da cui scaturiva, in una fase successiva, la loro produzione artistica.
Il Femminist Art Program ha proseguito al California Institute of the Arts, anche senza la sua presenza, fino al 1992.
Judy Chicago fa parte della prima generazione di artiste femministe, che sviluppava arte e scrittura e che aveva strette relazioni con il movimento artistico femminista europeo.
Nel 1972 ha creato Womanhouse, il primo spazio espositivo d’arte tutto al femminile. L’anno dopo ha co-fondato il Los Angeles Woman’s Building scuola d’arte con un programma sperimentale di educazione femminile nelle arti che ospitava opere di artiste provenienti da tutto il pianeta.
In parallelo c’era la sua sperimentazione artistica che si evolveva sempre più nell’esplorare il significato del femminile.
L’immagine di Judy Chicago è inclusa nell’iconico poster del 1972 Some Living American Women Artists di Mary Beth Edelson.
Il suo primo libro Through the Flower, del 1975, racconta le sue lotte per trovare la propria identità di donna e artista, tre anni dopo è diventata un’associazione senza scopo di lucro.
Negli anni, nonostante abbia ricevuto anche molte stroncature da una certa critica che vedeva nelle sue opere mancanza di profondità, ha esposto in tre continenti e i suoi lavori hanno raggiunto oltre un milione di persone.
La sua vita è stata molto intensa e ha portato a un altalenarsi di alti e bassi. A un certo punto si è rintanata in una comune rurale, isolata dal mondo, per dedicarsi al suo lavoro, fuori dalle luci della ribalta.
Dal 1980 al 1985 ha creato Birth Project lavoro collettivo per celebrare la maternità e il parto, evento miracoloso che riteneva trascurato nel mondo dell’arte. Nonostante ella non abbia mai avuto il desiderio di diventare madre. L’installazione ha reinterpretato la narrativa della creazione della Genesi, incentrata sull’idea che un dio maschio abbia creato un maschio umano, Adamo, senza il coinvolgimento di una donna. Un’opera titanica composta da 150 ricami provenienti da Stati Uniti, Canada e Nuova Zelanda su 100 pannelli costituiti da varie tecniche che raramente è stato visualizzato nella sua interezza. La maggior parte dei pezzi sono conservati nella collezione del Museo di Albuquerque.
La serie PowerPlay del 1982 è stata ispirata da un viaggio in Italia dove, dopo aver osservato i capolavori rinascimentali ha cominciato a rivolgersi alla visione del nudo maschile visto dallo sguardo femminile e sui suoi comportamenti violenti che conseguentemente hanno portato alla creazione di The Holocaust Project: From Darkness into Light (1985–93) in collaborazione col marito, il fotografo Donald Woodman.
Ha usato l’Olocausto come un prisma attraverso il quale esplorare la vittimizzazione, l’oppressione, l’ingiustizia e la crudeltà umana.
Nel suo lavoro ha introdotto anche altre questioni come l’ambientalismo, il genocidio dei nativi americani e la guerra in Vietnam che ha messo in relazione con il dilemma morale dietro l’Olocausto inimicandosi così la comunità ebraica.
Nel 1994 ha iniziato la serie “Resolutions: A Stitch in Time“, completata in sei anni e esposta al Museum of Art and Design di New York nel 2000.
Chicago e Woodman vivono al Belen Hotel, uno storico hotel ferroviario nel Nuovo Mexico che hanno convertito in casa.
Gli archivi dell’artista sono conservati nella biblioteca del Radcliffe College e la sua collezione di libri di storia e cultura delle donne è conservata nella collezione dell’Università del New Mexico.
Numerose le lauree honoris causa e i riconoscimenti ricevuti negli anni per il suo importante lavoro.
Ha donato la sua collezione di materiale didattico per l’arte femminista alla Penn State University nel 2011, anno in cui ha anche inaugurato la mostra Concurrents al Getty Museum.
Ha continuato a tenere mostre in giro per il Regno Unito dedicandosi, però, sempre più alla scrittura.
È stata intervistata per il film !Women Art Revolution del 2018.
In un’intervista con Gloria Steinem ha raccontato che il suo obiettivo come artista è stato creare immagini in cui l’esperienza femminile sia il percorso verso l’universale, invece di imparare tutto attraverso lo sguardo maschile.